Estate 1914, poco dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, le truppe tedesche invadono il Belgio. Il 26 agosto dello stesso anno nasce Julio Cortázar a Bruxelles, dove si trova la famiglia, di origini argentine, per motivi di lavoro del padre. In un’intervista del 1973 a RTVE Cortázar farà dell’ironia su come dalla sua nascita bellica sia venuto fuori uno degli uomini più pacifisti di questo pianeta.
All’età di quattro anni Cortázar parte con la famiglia alla volta dell’Argentina e si stabilisce a Banfield, un sobborgo a circa mezz’ora di treno da Buenos Aires, uno di quei quartieri che spesso si ritrovano nei testi dei tanghi. In una lettera l’autore ne parlerà come un un “meta-suburbio”, un luogo dove spesso aleggiava un’atmosfera inquietante, con scarsa illuminazione e strade non asfaltate. Banfield tuttavia affascina il giovane Julio, che lo definisce un «paradiso, in quanto la casa aveva un giardino molto grande che si affacciava su altri giardini». Questo “reino”, che si prestava ad avventure alimentate anche dalla lettura di Poe e Shelley, rimarrà vivo nei suoi ricordi e verrà immortalato nei racconti. In Disincontri Cortázar ce lo presenta così: «un villaggio, Banfield, con le sue vie di terra battuta e la stazione della Ferrovia Dus, i suoi terreni incolti che d’estate brulicavano di cavallette multicolori nelle ore più calde, e che di notte si acquattava quasi timoroso intorno ai rari lampioni posti agli angoli delle strade, con ora qua ora là il fischio dei vigili a cavallo».
Ma in questo paradiso, che segnerà la sua infanzia e la sua adolescenza, Julio, dopo essere stato abbandonato dal padre, ci vivrà fino ai diciassette anni. Questo luogo però ha anche un suo lato infernale, fatto di tristezza e solitudine. Cresciuto in una sorta di gineceo, è qui che Cortázar matura la passione per la musica e la letteratura, suoi rifugi per l’anima.
Questo sentimento di solitudine lo accompagnerà nel corso della sua giovinezza.
Dopo aver frequentato la Escuela normal de profesores e aver ottenuto il titolo di professore nel ’35, e dopo una breve parentesi universitaria alla facoltà di Lettere di Buenos Aires, abbandonata per motivi economici, viene mandato a insegnare a Bolivar, una cittadina sperduta nella pampa polverosa. Qui trascorre due anni in isolamento e, come afferma Miguel Herráez in Dos ciudades en Julio Cortázar, cerca di combattere quel contesto smorto e privo di stimoli grazie all’orchestra di Zerrillo, al mate, alle passeggiate ma anche alla lettura; lo stesso Cortázar confessa: «avevo letto Rimbaud e Keats per non morire troppo di quella tristezza provinciale».

Questo sentimento si perpetua anche a Chivilcoy, altra cittadina della provincia di Buenos Aires. Un’immagine interessante che ricrea bene l’atmosfera della Pampa Cortázar ce la restituisce nel racconto Il Viaggio. A proposito di quest’esperienza Cortázar dichiarò: «A Chivilcoy, ero un giovane insegnante nella scuola normale; vi ho vegetato dal ’39 a ’44. In quella città della pampa appiattita […] quasi mai è successo qualcosa, quasi mai si poteva sentire che la vita era qualcosa di più che insegnare educazione civica agli adolescenti o scrivere all’infinito in una stanza della Pensione Varzilio».
Dopo questa parentesi come professore, al giovane Julio viene affidato un incarico all’Università di Cuyo, a Mendoza, per tenere un corso di letteratura francese. Le scelte di Cortázar in quegli anni sono influenzate dal clima politico. Si assiste all’ascesa di Perón che lo porterà a dimettersi dall’incarico universitario. La sua è una rinuncia, una mossa anticipata, un atto volontario. Cortázar aveva partecipato a una manifestazione antiperonista, ma non era ancora in quegli anni un attivista politico – lo diventerà poi interessandosi alla rivoluzione cubana, subendo quella che Vargas Llosa ha definito una vera e propria “mutazione”.
La concezione del mondo di Cortázar era incompatibile con il peronismo.
Come afferma Herráez, il sentimento che sperimentò Cortázar era qualcosa di diffuso tra molti argentini, in particolare piccolo borghesi, ovvero: «il degrado delle forme culturali e il prevedibile impoverimento delle aspirazioni intellettuali. Il peronismo fu un fenomeno complesso che apportò cambiamenti ma che ha teso sempre più verso l’affermazione di un potere personalista, “violentando” le strutture di un sistema democratico».
In questi anni Cortázar ritorna a Buenos Aires.

Anche la vita portegna è segnata dall’isolamento e l’autore si rifugia nel suo spazio intimo. Herráez scrive: «Dal 1946 al 1951, la vita di Buenos Aires, solitaria e indipendente; convinto di essere uno scapolo irriducibile, amico di pochissime persone, melomane, lettore a tempo pieno, innamorato del cinema, borghese cieco di fronte a tutto ciò che accadeva al di fuori della sfera dell’estetica».
Il ritorno nella capitale non è sufficiente a dare respiro all’autore, il cui il clima sempre più pesante lo porterà a evadere. Il concetto di soffocamento – e di conseguente evasione – viene descritto allegoricamente nel racconto Casa occupata, che scrisse probabilmente di ritorno a Buenos Aires. Ambientato in calle Rodríguez Peña, nel quartiere di San Nicolás, il racconto ci presenta due fratelli ai quali viene occupata la casa. I due si vedono privati sempre più dei loro spazi e oggetti cari, in un crescendo che culmina con l’abbandono definitivo dell’appartamento. Cortázar, che aveva descritto il racconto come frutto di un sogno, tuttavia in qualche modo riconobbe che potesse essere stato il frutto inconscio dell’invasione del suo spazio intimo da parte della forza astratta e metaforizzante del peronismo, che nel racconto diventa l’invasore della casa abitata dai due fratelli, come riporta Herráez.
Cortázar, decide di evadere da questo generale clima di asfissia, sceglie di autoesiliarsi. Finisce così “dall’altra parte”, fa ritorno in Europa, a Parigi, “la ville mitique”, dove nel 1951 ottiene un incarico come traduttore.

Così ricorda i suoi primi anni parigini, dove viene a contatto con un diverso sistema di valori, nuovi modi di pensare: «Le tue lettere mi riportano ai primi anni a Parigi. […] Anch’io ho scritto lettere di sofferenza, per mancanza di soldi, ho anche aspettato l’arrivo di quelle piccole casse in cui la famiglia ci mandava mate e caffè e barattoli di carne e latte condensato, ho anche spedito le mie lettere in barca perché la posta aerea costava troppo».
In questo ricordo riecheggiano le parole di Horacio Oliveira, protagonista di Rayuela (Il gioco del mondo, 1963): «Oliveira preparò dell’altro mate. Bisognava tener da conto quell’erba, a Parigi costava cinquecento franchi il chilo […]. Per fortuna l’avvocato di Rosario – che fra l’altro era anche suo fratello – gliene aveva imbarcati cinque chili Croce di Malta, ma ne rimaneva ormai pochissima. «Se il mate finisce, sono fritto, – pensò Oliveira. – Il mio unico autentico dialogo è quello con il bricco verde». Studiava il comportamento straordinario del mate, la respirazione dell’erba fragrantemente sollevata dall’acqua che poi succhiandola scende fino a posarsi su se stessa, dopo aver perduto ogni lucentezza e ogni profumo a meno che uno zampillo d’acqua la stimoli di nuovo, polmone argentino di ricambio per solitari e tristi». (Rayuela, 19)
Qui emerge il senso di solitudine e incertezza che prova il protagonista, uno studente borghese e portegno che lascia l’Argentina, con tutte le inquietudini e i desideri per approdare oltreoceano in cerca di una risposta, del “Centro”. Horacio scappa, cerca risposte altrove: «Se qualcosa aveva scelto fin da giovane era il non difendersi mediante la rapida e affannosa accumulazione di una «cultura», trucco per eccellenza della classe media argentina per sottrarre il corpo alla realtà nazionale e a qualsiasi altra ancora, e credersi al riparo dal vuoto che la circondava». (Rayuela, 3)
Horacio si perde in una Parigi brulicante, effervescente dal punto di vista culturale, vorticosa, dove l’autore “in pieno appagamento precario”, si immerge: «tesi la mano e toccai il gomitolo Parigi, la sua materia infinita avviluppante su se stessa, il magma dell’aria e di quanto si disegnava nella finestra, nuvole e abbaini». (Rayuela, 2)
Nella capitale un pomeriggio avviene l’incontro con la magaa – Lucia, una donna di umili origini emigrata da Montevideo – che diventa una sua ossessione: «Quel pomeriggio tutto andò male, perché le mie abitudini argentine mi vietavano di passare continuamente da un marciapiede all’altro per guardare le cose più insignificanti nelle vetrine debolmente illuminate di non ricordo più quali strade». (Rayuela, 1)
Proprio con l’interrogarsi del protagonista sulla possibilità di incontrare la Maga si apre Rayuela, apertura che si presta per offrire un ritratto della Parigi della Rive Gauche, del Pont des Arts, del Quai de Conti, di quell’intricato reticolato geografico in cui si perde il protagonista nel tentativo di incontrare la maga “per caso”. Una Parigi di cui ci vengono offerte impressioni, pennellate, itinerari.
Le peregrinazioni di Horacio, con un atteggiamento un po’ da flaneur tra i quartieri di Parigi – la rive Gauche, Belleville, Marais, le soste nei bar e davanti ai bouquinistes, la sua relazione sentimentale con la Maga, le gelosie, i raduni del Club del Serpente, le disquisizioni sull’arte, la metafisica, la musica (l’eccitazione per il Jazz), il surrealismo, la pittura, sono la materia della prima parte di Rayuela.

Questo spaccato di vita parigina ci rimanda un po’ ai Passages parigini amati dai flaneurs della Parigi moderna, ma anche alla Parigi anni ’60 descritta da Perec in Le cose, dove Sylvie e Jérôme, due ragazzi che inseguono il loro sogno materiale, passeggiano attratti dalle vetrine, camminando lentamente: «Di fermata in fermata, antiquari, librai, negozi di dischi, le liste esposte dei ristoranti […]: lì riponevano le loro ambizioni e le loro speranze». Va inoltre ricordato che Rayuela esce nel 1963, un’epoca tesa a livello geopolitico (l’indipendenza dell’Algeria, crisi dei missili di Cuba, etc).
La Parigi ha anche una doppia anima per Cortázar: quella in superficie e quella sotterranea.

Quest’ultima affascina l’autore proprio perché vi percepisce una temporalità altra, come sospesa: cambia il sentimento del tempo. Anche Calvino ne subirà il fascino e vi proietterà il suo “sogno d’essere invisibile”: “questa folla in cui posso osservare tutti a uno a uno e nello stesso tempo essere invisibile” (Un eremita a Parigi).
Proprio di questa sensazione ne parla il sassofonista Jhonny Parker, protagonista del racconto Il persecutore: «La questione è che io avevo preso il metro alla stazione di Saint-Michel e subito mi sono messo a pensare a Lan e ai ragazzi e vedevo il quartiere. Appena mi sono seduto mi sono messo a pensare a loro. Ma nello stesso tempo […] ho visto che dopo un minuto, suppergiù, arrivavamo all’Odéon […]. Allora com’è potuto succedere che io abbia pensato un quarto d’ora?».
Ma in questa Parigi vibrante, una “gigantesca opera di consultazione” come la definì Calvino, Horacio, che si muove “come una foglia secca”, non riesce a soddisfare la sua ricerca e la scomparsa della Maga lo porterà a tornare “da questa parte”, a Buenos Aires, facendo un balzo su un’altra casella del suo gioco del mondo.
Qui ad aspettarlo ci sarà il suo amico Traveler, con la moglie Talita (sorta di doppio della coppia Horacio-Maga). Ma tra il mate, le sigarette e il circo, Horacio è cupo, non riesce a fare a meno di criticare Buenos Aires, “una puttana agghindata”, che lui sente ormai inconciliabile ma per la quale nutre al contempo un’immensa “carica d’amore”. Qui giungerà alla consapevolezza che «il ritorno era in realtà l’andata e in più d’un senso e che era lontano dal suo paese più di quanto non lo fosse in Europa» (Rayuela, 40).
E questo è anche un po’ il sentimento di Cortázar quando farà ritorno a Buenos Aires, nel suo ultimo viaggio del 1983, per visitare la madre dopo la caduta della dittatura – era stato infatti dichiarato come “persona non grata” nel 1976 dalla Junta Militar – e l’ascesa al governo di Raúl Alfonsín.
Anche le due città si confondono quasi e in fin dei conti «a Parigi, tutto era per lui Buenos Aires, e viceversa; all’apice dell’amore pativa e accettava la perdita e l’oblio». (Rayuela, 3).
E la sua ricerca non lo porterà al Centro, tantomeno alla Maga – che proietterà sulla figura di Talita – lo continuerà ad accompagnare invece quella nostalgia, quel sentimento tipico anche del tango portegno, di cui mai si libererà: «Ma ogni tanto erano tristi perché capivano, anche se vagamente, che ancora una volta ridere era un espediente estremo contro la malinconia portegna e una vita senza troppi». (Rayuela, 37)
Horacio proverà anche il suicidio, giungendo alla conclusione che nemmeno quel gesto estremo lo porterebbe alla risoluzione. Come afferma Cortázar stesso, Oliveira è un uomo la cui meta “non è definita, né definitiva” e il Centro per lui è «quella dimensione nella quale l’essere umano, individuale o collettivo, può reinventare la realtà. Di conseguenza Oliveira “distrugge tutto al suo passaggio. Butta via tutto: donne, cose, tempo, città» nella speranza di poterla reinventare. Il salto, il ritorno, nulla è risolutivo.
Per tornare alla vita di Cortázar, Oliveira compie il percorso inverso del suo autore, il quale cerca – e poi trova – a Parigi quel respiro, quella spinta, motivazione che non trovava in una Buenos Aires asfittica.
In un’intervista al giornalista peruviano Alfredo Barnechea, Cortázar dichiara: «Buenos Aires mi aveva tolto l’aria ed è stata Parigi a permettermi di guardare con occhi totalmente nuovi il mio paese e l’America latina. Parigi, o meglio l’Europa, mi aprì un orizzonte totale, planetario, che non avevo a Buenos Aires».
Infine il viaggio di Cortázar si conclude nel 1984, prima di un ritorno progettato per Buenos Aires e dopo una delle sue ultime tappe, quella che ha definito “una interminable fiesta de la vida”: il viaggio sull’autostrada Parigi-Marsiglia dell’82 con la compagna Carol Dunlop, di cui rimane una sorta di diario ne Gli autonauti della Cosmostrada.
