Tintinnio

Ero arrivata alla chiesa di Santa Chiara con Mirella, mia sorella, e zia Bianca, la sorella non sposata di mio padre, che viveva insieme a noi. Ricordo che guardavo verso l’alto, a quelle pareti e a quelle colonne, che ai miei occhi di bambina di sette anni sembravano innalzarsi fino al cielo. Il cielo, dall’interno della chiesa, si vedeva, poiché a causa dei bombardamenti il tetto era crollato.

«Betty non restare lì impalata, è pericoloso. Vieni, usciamo» mi richiamò zia Bianca. Uscimmo dalla chiesa e ci affacciamo su piazza del Gesù Nuovo. La sensazione che avevo era quella di ritrovare Napoli, la mia città, come un ferito grave che vorrebbe essere dimesso dall’ospedale, ma non ne ha ancora le forze. Il martirio era durato tantissimo. E durante quel tempo io e la mia famiglia avevamo vissuto da sfollati. Lontani dalla città e dalle bombe.

Su piazza del Gesù non c’erano altro che macerie e un gran sole, quel sole che avvolge sempre Napoli. Alcuni uomini raccoglievano pezzi di cemento e di ferro e, passandoseli di mano in mano, li caricavano su piccoli carretti sgangherati. Non ho mai più visto una solidarietà così spontanea e profonda. Avevamo quasi oltrepassato la piazza, quando mi chinai su un ammasso di macerie e raccolsi una pietra. La porsi a un signore che reggeva un carretto. «Grazie assai» disse, mentre zia Bianca cominciò a gridarmi di smetterla di stare con la testa tra le nuvole. Tornai da lei, che mi tirò forte a sé.

Quel giorno passeggiammo in lungo e in largo per il centro storico. Qualche piccolo negozio cominciava a riaprire e tutti erano felici. La libertà aveva un sapore commovente.

«Arriviamo fino a Port’Alba» disse zia Bianca. Port’Alba era il posto dove la mamma comprava i libri. Un’intera strada che su ambo i lati aveva negozi di libri nuovi e usati. Arrivammo fino alla fine della via, sotto l’arco che affacciava su piazza Bellini. Lì c’era una vecchietta con un carretto che friggeva panzarotti. Con l’eleganza che la contraddistingueva, zia Bianca prese dalla tasca uno dei suoi fazzoletti ricamati, si tolse gli occhialoni da vista e si asciugò le lacrime. Poi tossì e con tono materno ci disse: «Bambine, vi vanno due panzarotti, prima di tornare a casa?». Così li mangiammo e mi sembrarono la cosa più buona del mondo, rispetto alla fecola di patate o a quelle altre cose orrende a cui c’eravamo abituati durante la guerra.

Poi ci incamminammo verso casa. La strada era lunga fino a via Martucci. La città era dolente e distrutta. I napoletani, invece, per indole, erano sorridenti e già intrallazzavano per strade e viuzze.

Verso la fine di via Toledo, trovammo una grande folla. C’erano tantissimi soldati. Su piazza del Plebiscito era stato montato un palco. La gente applaudiva e incitava gli oratori. Zia Bianca cercava di farsi spazio tra la folla e di tenerci strette a lei. A un certo punto si fermò ad ascoltare. Io non vedevo nulla, se non le gambe grassocce della signora ferma davanti a noi. Improvvisamente un uomo si chinò di fianco a me. Aveva un’espressione che parlava di sofferenza, speranza, forza. Indossava una divisa militare. Ormai ero abituata a vedere in giro per la città soldati, che fossero italiani oppure tedeschi, ma una divisa come quella non l’avevo ancora mai vista. Era verdina e abbastanza semplice. Le sue mani erano sporche, tutte nere, come il suo viso. Aveva un taglio sul sopracciglio e un sorriso così tranquillo, che mi sembrava di conoscerlo. Mi sfiorò il braccio e mi porse un sacchetto di iuta tintinnante. Zia Bianca subito si accorse dell’uomo e mi trasse a sé, ma io feci in tempo a nascondere il sacchetto nella piccola cartellina che avevo con me.

«Come si permette? Cosa stava facendo a mia nipote?» disse la zia. «Scusa. No capisco» disse il soldato. «Vabbè, vabbè. Quando volete voi, lo sapete parlare, quando invece non vi conviene allora dite di no. Jamm’ bell’ bambine, andiamo». L’uomo mi sorrise. Mi sembrava un eroe, un gigante. Mi guardò andare via e mi salutò con la mano. «Tu sembrare mia piccla figlia in Oklahoma. Ciao» disse.

Lungo il tragitto fino a casa zia Bianca era infuriata e continuava a lamentarsi con me e Mirella per il fatto che quell’uomo ci avesse importunate. La gioia per il panzarotto e per la liberazione della città le era già passata. Zia Bianca era così. Umorale fino al punto più profondo del suo cuore. Io, invece, non riuscivo più a parlare. Avevo una paura tremenda per il mio segreto. Perché avevo portato con me il regalo di uno sconosciuto.

Finalmente dopo tanto peregrinare, salimmo le strette scale del nostro palazzo e arrivammo a casa. Mio padre, di ritorno dal paese dove eravamo stati sfollati, non era ancora riuscito a trovare una casa solo per la nostra famiglia. Così vivevamo insieme a tutte le sorelle di mia madre. Ricordo che c’erano due grandi stanze piene di letti. Con noi abitavano anche mia nonna materna, zia Adriana, zia Antonietta, zia Maria, zia Rita, zio Carlo e il figlio di zia Maria, mio cugino Paolo. In pratica non si stava mai soli. C’era sempre qualcuno che cucinava, qualcun altro che chiacchierava o giocava a carte e il bagno era sempre occupato. E poi c’era mia nonna paterna. Una donna elegante, austera. Non aveva mai un capello fuori posto. Era molto severa con me e Mirella e per niente affettuosa.

Di ritorno dalla passeggiata con zia Bianca, Mirella ed io corremmo al letto che condividevamo. Io appesi la cartellina alla testata del letto. Un tintinnio, proveniente dalla cartellina, riempì il silenzio. Nella stanza c’era soltanto mia nonna paterna, che guardava fuori dal balconcino e che improvvisamente si girò verso di noi. «Cos’era quel rumore?» disse. «Niente, nonna. Non vi preoccupate» rispose Mirella. Io istintivamente afferrai la cartellina e cercai di nasconderla sotto il letto, ma la nonna mi vide. Venne verso di me, la prese e la aprì. Trovò immediatamente il sacchetto che mi aveva dato il soldato. Dentro c’era una manciata di monete. 

Ancora oggi ho chiara nella testa l’espressione che fece mia nonna. Spinse gli occhi all’indietro, allargò le narici ed emise un lungo sospiro. Mi mise una mano sulla testa. «E questi dove li hai presi? Li avete rubati?» mi chiese. «Nonna non li abbiamo rubati. Me li ha dati un signore stamattina. Un soldato che non parlava l’italiano. Zia Bianca non lo sa. Per favore nonna non glielo dite» risposi. «Non glielo dirò, ma queste monete le devi subito andare a buttare. E poi se è stato un soldato americano, sono simbolo di cose non buone. Vogliono comprare anche i sorrisi dei nostri bambini adesso» disse con tono severo. Feci un cenno di accondiscendenza con la testa e presi il sacchetto dalle sue mani. Intanto Mirella era rimasta a bocca aperta tutto il tempo. La presi per mano. «Accompagnami» le dissi.

Scendemmo giù lungo quelle scale strette con il sacchetto che ancora tintinnava. Io e mia sorella ci scambiammo un lungo sguardo d’intesa, ma anche di rammarico. Avevamo un piccolo tesoro tra le mani, ma non potevamo usarlo. Avremmo potuto comprare della cioccolata oppure finalmente una nuova bambola, poiché eravamo in due e ne possedevamo soltanto una molto vecchia, per la quale litigavamo in continuazione. «Non buttarlo» disse Mirella. «Non lo so. Ho paura che la nonna si arrabbi con me» risposi. «Nascondiamolo» disse. Ci scambiammo uno sguardo di sfida e complicità. «No, dai. Dove lo nascondiamo? E se poi la nonna ci scopre?» dissi io. «Sarà il nostro segreto. Promettiamolo» rispose lei.

Ci pensai un attimo. Già mi vedevo la nonna metterci in punizione o ancora peggio fare la spia con nostro padre.  Era un carabiniere, ligio al dovere e molto severo. Un uomo d’altri tempi. Una persona tutta d’un pezzo. «E se lo scopre papà? Lo sai che lui odia i soldati che non parlano l’italiano» dissi io. «Nessuno lo saprà» rispose Mirella.

Nel cortile, proprio sotto le scale, c’erano alcune mattonelle divelte. Ne ero sicura, perché quando giocavamo a nascondino nel cortile, quel posto sotto le scale era quello in cui amavo di più nascondermi. 

«Possiamo metterle dietro quelle mattonelle un po’ rotte che ci sono sotto le scale» dissi a mia sorella. «Va bene» rispose lei. Così ci chinammo sotto le scale. Spostammo una grande mattonella insieme e riponemmo il sacchetto lì dentro. Poi richiudemmo la fessura.

Ci sedemmo su uno degli ultimi scalini, che davano sul cortile, e rimanemmo lì in silenzio a fissare il vuoto per un po’. Come se fossimo entrambe rimaste a fare la guardia al nostro piccolo tesoro. Poi arrivò il buio e decidemmo di tornare a casa. Risalimmo su e andammo dalla nonna a dirle che avevamo buttato il sacchetto. Per noi era stato un gesto doloroso, invece la nonna se n’era già dimenticata e giocava a carte con le zie. Io e Mirella non parlammo più di quella storia, né tra di noi, né con la nonna. Dopo pochi mesi nostro padre trovò una casa tutta per noi a via San Pasquale e vi ci trasferimmo, insieme a zia Bianca e alla nostra glaciale nonna paterna. Il sacchetto con le monete rimase lì nel palazzo di via Martucci.

Qualche tempo fa, passeggiavo con mia nipote su quella strada e il portone del palazzo dove abitavo era semiaperto. Il portiere stava spazzando il cortile dalle foglie. Le scale erano nello stesso punto, ma erano nuove, ben tenute. Mi sono fermata a osservare. «Cos’hai nonna?» mi ha chiesto mia nipote. «Nulla. Abitavo qui subito dopo la guerra. In questo palazzo» risposi continuando a camminare. 

Non ho avuto il coraggio di entrare e di andare a cercare il nostro sacchetto tintinnante.

Pubblicato da valentinafiordiliso

Valentina nasce a Napoli, città che forgia il suo animo. Vive a Roma dall'età di diciannove anni, dove si laurea al DAMS dell'Università degli Studi Roma Tre e contemporaneamente comincia la sua lunga gavetta sui set. Dalla fine del 2015 lavora come freelance nel settore cinematografico per il reparto produttivo. Ha partecipato a progetti quali le serie tv "Il Miracolo" e "Anna" di Niccolò Ammaniti, il film "6 Underground" del regista americano Michael Bay e il prequel de "Il Trono di Spade". Ama passeggiare senza una meta e perdersi per le città.

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