Ombre a San Siro

La prima regola del derby è: non si parla del derby nella settimana prima del derby. Tra cinque giorni c’è Inter-Milan e Tre Sequenze mi commissiona un reportage su San Siro. Devo fare un giro al Meazza, scattare fotografie, raccontare il luogo.

Filo conduttore: il derby di Milano. Perché proprio io? Non potevano assegnare questo lavoro a uno estraneo alla faccenda, uno che della prima regola del derby se ne infischia? No, hanno scelto me. Allora eccomi qui in piazza Axum. Bevo un amaro da Luka il Cina, dove passo con mio padre prima di ogni partita casalinga dell’Inter sin da quando avevo otto anni, e tra dieci minuti sarò in piazzale Moratti a fare il biglietto per il tour dello stadio. 

«Come mai qui? Oggi non gioca Intel». «Luka, non ti ci mettere pure tu». Un sorso di amaro. Poi, improvvisamente, capisco. Nella redazione di Tre Sequenze dev’esserci un tifoso della Juve o della Lazio, le due squadre che con la mia si contendono le prime posizioni della classifica. Ecco perché hanno scelto me. Il misterioso committente pensa: “Meglio sia l’Inter a perdere il derby, mandiamoci un interista per questo reportage porta-iella”. Ah sì? Che sfida sia: scriverò.

Però mica comincio parlando del derby di Milano. Eh no, questa prima foto di San Siro la dedico alle squadre di Madrid. Nello stadio Meazza, il 28 maggio 2016, si è giocato uno dei derby più eclatanti della storia del calcio: Real-Atletico, finale di Champions League. Immaginate un’estate prematura e questa meraviglia architettonica che chiamano “la Scala del Calcio” rivestita con centinaia di loghi della Champions. Piazzale Moratti non è vuoto come ora. È una distesa di sciarpe blanco-biancorosse. Ovunque vedi numeri 7: CR, Griezmann; e non sai di chi innamorarti, di quale maglia, di quale ragazza castigliana, di quale delle birre che i chioschi vendono a prezzi più meneghini che iberici. 

Tanto bastava per rimanere incantato. Non guardai la partita quel 28 maggio, restai qui nel piazzale. Seguirla in tv? Fare il tifo per l’Atletico di Simeone o per il grande Real? No, meglio ascoltare cori e urla da fuori, e farsi irretire dalla bellezza di un derby. 

Ecco che la trappola del committente misterioso comincia a funzionare. Non sono ancora entrato nello stadio e già mi metto a fare il sentimentale, parlando di ciò che dovrei tacere. Ma come posso non pensare che qui, tra cinque giorni, ci sarà la stracittadina? È la sfida delle sfide: se batti i cugini, diventi custode pro tempore di tutto quello che la tua città contiene e rappresenta. 

Prima che i miei pensieri finiscano per violare con pronostici la scaramanzia, raggiungo i tornelli del Meazza. Sembrano un omaggio al Futurismo milanese: una scuderia di cavalli d’acciaio. Ricordo quando li costruirono. Gli anni in cui i milanisti ci cantavano: «Non vincete mai». Sarà stato il duemilae… Un colpo alle spalle mi distrae, più una botta che un brivido. Cos’è? Non si tocca, si sente. Una presenza diabolica: un fantasma che s’è annidato nel cappuccio della mia felpa. 

Il fantasma non c’entra con i tornelli. Infatti, ora che sono dentro allo stadio, lo sento ancora. Con cosa c’entra? Con «Non vincete mai», temo. Devo tentare una pratica esorcistica: neutralizzare questo demone e il ricordo che l’ha prodotto. Vado sotto alla Curva Sud, rievoco il primo derby che dagli spalti ho visto vincere all’Inter. 

13 aprile 1997. Quelli della Sud indossavano un cappello da chef, lo striscione che prendeva l’intera curva diceva: «Siete nel nostro menu, maiali». Per completare la coreografia, gli ultrà milanisti avevano realizzato una serie di porci in polistirolo dipinti di nerazzurro. Gustosa provocazione. L’Inter però vinse 3 a 1. Gol di Djorkaeff, Zamorano, Ganz (per noi) e Roby Baggio (per loro). 

Chi fosse passato nei paraggi del Meazza quella sera, avrebbe visto lungo i marciapiedi e le strade che contornano lo stadio tanti pezzi colorati di polistirolo, gettati là sull’asfalto. Quelli della Sud infatti sfogarono la delusione macellando i finti maiali. Noi interisti, in ricordo di una serata memorabile, potemmo trafugare ciò che rimaneva delle sagome suine. Ho ancora a casa una zampetta. 

Mi dirigo verso la nostra curva cantando sulle note della Macarena: «Salta con noi che segna Zamorano…eeeh Zamorano», proprio come in quel lontano 13 aprile. 

Che giocatore, il cileno! Quando nel 2003 chiuse la carriera, venne a San Siro per ringraziare i suoi tifosi. La curva interista lo omaggiò con uno striscione che diceva: «La Nord di Milano saluta il guerriero Zamorano». Il guerriero si commosse e pianse davanti a tutto lo stadio. Ecco che torno sentimentale. Non va bene, e a farmelo notare si presenta immediato il ricordo dell’unico derby che io abbia visto dalla Nord invece che dal mio secondo anello rosso: 21 febbraio 2004, Milan 3 – Inter 2. 

E dire che a fine primo tempo eravamo sopra di due gol, grazie a Stankovic e a un’autorete di Kaladze. Ma l’uomo-partita fu un personaggio che nemmeno entrò in campo. Un nanerottolo che quella sera occupava il posto dietro al mio. Durante l’intervallo tra i due tempi disse a me e a mio padre: «Ragazzi, non ho dubbi: la vinciamo». Non so se quel tipo fosse un umorista antipatico, un irriducibile idealista, o più semplicemente un milanista mimetizzato nel nostro settore. Certamente si rivelò uno iettatore. 

E il fantasma è tornato a farsi sentire nel cappuccio della mia felpa. 

È come se fosse la mia ombra, questo fantasma. Corro lungo il tunnel che porta agli spogliatoi, intanto penso ai migliori derby vinti dall’Inter. La samba di Ronaldo e il tango di Simeone, il ginocchio di Vieri, il 3 a 2 di Adriano, il 4 a 3 con Ibra, le meraviglie di Deki Stankovic, l’anno del Triplete, il 4 a 2 per cui il Milan perse lo scudetto nel 2012, l’incornata di Samuel, il tacco di Palacio, la tripletta di Icardi. 

Ma il fantasma continua a battermi sulle spalle, sembra persino scalciare. Raggiungo lo spogliatoio dell’Inter. Sulle pareti, tanti ritratti dei campioni del passato. Uomini-dei più potenti di qualsiasi esorcista: da Meazza a Berti, da Jair a Cambiasso. 

Ora il cappuccio della mia felpa è impazzito. Picchia, dribbla, scatta. Vedo una fila di maglie nerazzurre. Tra tutte brilla quella arancione del portiere Handanovic, il capitano. Samir da Lubiana, città che ha per simbolo un drago così simile al nostro biscione visconteo, aiutami tu. Prendi a schiaffi con i tuoi guantoni chi si sta impossessando di me. 

O almeno dimmi chi è. 

Giungo al museo dello stadio, dove sono esposti cimeli e reperti storici di Milan e Inter. Qui, dietro a una teca di vetro, scovo il fantasma. Ora è tutto chiaro. Non c’è nessun committente misterioso. A Tre Sequenze interessa solo che il reportage io lo scriva. E la scrittura concede questa opportunità: fare un uno contro uno con i propri demoni. Di cosa ho paura? chi popola i miei incubi? 

Maglia rossonera numero 7. Il diavolo biondo che veniva da Kiev. Da che pallone è pallone nessuno ha squarciato la rete dell’Inter più volte di Andriy Shevchenko. 

Ogni notte che precede un derby lo sogno. Nell’incubo sono sugli spalti di San Siro, guardo i giocatori in campo, poi mi giro verso mio padre, dico: «C’è lui?», e papà ha la faccia di Cordoba, Materazzi, Mihajlovic, Cannavaro, Blanc, di tutti quei difensori, fortissimi, che nelle stracittadine non riuscivano a contenere Sheva. 

Lo sognerò ancora, lo so. Alla teca di vetro potrei dire: «Ci vediamo tra quattro notti, appena chiuderò gli occhi». Potrei, non lo faccio. Meglio non dare troppa confidenza ai propri incubi. Ci sia confronto tra me e il fantasma, ma che si concluda a reti inviolate. 

La seconda regola del derby è: se ti costringono a parlare del derby nella settimana prima del derby, devi dire soltanto «zero a zero». 

Pubblicato da Michele Castelli

Nato a Milano nel 1987. Nel 2021 ha vinto il Primo Premio Nuovi Argomenti con il racconto "L'Empuerio", pubblicato su «Nuovi Argomenti» nel 2022. Un suo racconto è stato incluso nell’antologia “Racconti lombardi 2020” di Historica edizioni. Ha scritto per varie testate e riviste, frequenta l'Accademia di scrittura creativa Molly Bloom.

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