Annie François consigliava di combattere la depressione e la nevrastenia leggendo racconti. Riemersa dalla quarantena con il morale basso, ho deciso di mettere alla prova il suggerimento: ho fatto la fila davanti alla libreria e ne sono uscita con la raccolta di Nadia Terranova, pubblicata in primavera da Giulio Perrone Editore. Il titolo, Come una storia d’amore, e la copertina (bellissima, di Maurizio Ceccato, rami fioriti di rosso su sfondo color panna, tanto leziosa e seducente che la mia nipotina non ha potuto fare a meno di disegnarci sopra un cuore, per fortuna a matita) ispiravano un senso di speranza e di rinascita. Più leggevo, più mi rendevo conto che lo spirito del libro in realtà è malinconico, a tratti dolente. Eppure l’effetto antidepressivo l’ha avuto lo stesso. Forse proprio per questo: come quando si è tristi non si vuole avere attorno persone fastidiosamente allegre, così la malinconia dei racconti ha assecondato la mia, contribuendo infine a scacciarla.
Di Nadia Terranova avevo letto, come tanti, Addio fantasmi, finalista al premio Strega nel 2018, ma mi incuriosivano i racconti di un’autrice in grado di scrivere con pari successo sia romanzi (l’editore è Einaudi) sia libri per ragazzi (Bruno il bambino che imparò a volare, pubblicato da Orecchio Acerbo nel 2012 e più recentemente Omero è stato qui, uscito per Bompiani l’anno scorso).
Come una storia d’amore raccoglie dieci racconti. Le protagoniste sono tutte donne che vivono a Roma. La sensibilità di Nadia Terranova si espande a comprendere gli ampi spazi della vita cittadina, è una molla che oscilla dal particolare all’universale, dalle cose minime ai sentimenti globali, dalla persona sola alla comunità di una strada. Un movimento efficace, in grado di abbracciare tutto, ma anche di lasciarlo andare, come le storie d’amore, appunto, che nascono e finiscono, e poi rinascono.
I dieci racconti traboccano di quell’esistenza femminile che Marguerite Yourcenar definisce «segreta», ma anche dell’impulso alla vita fuori: fuori di casa, fuori da sé. Una doppia dimensione di cui Roma è lo specchio, come forse tutte le città del mondo. Sono tante le finestre che compaiono nei racconti, varchi spazio-temporali ai quali le donne si affacciano. In Via della Devozione Teresa passa alla finestra quasi tutte le sue giornate perché «dopo l’ictus, il tempo della finestra è diventato tutto il tempo»; è da lì che assiste all’omicidio di Andrea, transessuale gentile, che una volta l’ha difesa al mercato. Il finestrino del tram numero 14 è l’occhio di Elisa sullo squallore della Prenestina; una scuola di ebraico il pretesto per studiare la felicità, propria e altrui; una lavanderia sbagliata segna l’ingresso nella vita di Nilima, che vorrebbe viaggiare, ma che il marito costringe a lavorare in pochi, soffocanti, metri quadrati; il profilo facebook di una sconosciuta è riflesso bluastro di una vita vera; un matrimonio finito e un’altra donna alla finestra: «Ho sposato l’uomo giusto e la città sbagliata e vivo senza il primo incastrata nell’altra».
Il rapporto delle protagoniste con Roma è difficile, polimorfo, stratificato: la città accoglie, ma fagocita, seduce, ma tradisce. Una come me – nata vicino Milano, trasferita a Roma da bambina ma cresciuta in periferia, poi andata ad abitare in centro, poi di nuovo in periferia, con un senso di appartenenza misto – in questa prospettiva disallineata si è sentita compresa. Bellissimo il racconto finale, che in realtà è una Lettera a R.: «Lei è una città di sentimenti estremi: le si appartiene o la si detesta, lo sanno tutti, lo sa pure l’ultimo degli ultimi. […] Amala o odiala, difendila o lasciala andare, sputale addosso o mettiti al suo servizio, fallirai in ogni caso. […] La città c’era prima di te e ci sarà dopo di te, il tuo passaggio le è stato lieve».

Nadia Terranova, Come una storia d’amore, Giulio Perrone Editore, 2020, p. 144, 14, 25 €