Il rapporto fra le opere letterarie e i luoghi che le hanno, in vario modo, generate è da sempre uno dei dialoghi più belli da ascoltare. Un dialogo, si è detto, perché le due parti intessono un legame simbiotico di rispondenze, dove l’una non può fare a meno dell’altra. Partiamo dal concetto stesso di «paesaggio»; la filosofia e l’antropologia ce lo hanno a più riprese ricordato: il paesaggio è una costruzione umana, culturale, estetica, che può persino farsi sociale, politica. Non esiste un paesaggio se non c’è una cornice mentale che lo inquadra, che lo rende tale. E la letteratura intaglia, non meno di altre forme artistiche, la cornice culturale che modella il nostro sguardo sul mondo, la nostra prospettiva, il paesaggio che prende forma davanti ai nostri occhi. Guarderemmo un paesaggio allo stesso modo, se non avessimo conosciuto un’opera che lo ha reso celebre, che ce lo ha fatto scoprire, che ci condotti fin lì?
Le città, dal canto loro, intrattengono un rapporto privilegiato con la rappresentazione letteraria. Proprio l’essenza stratigrafica delle città, il loro essere sempre un palinsesto di sé stesse, l’essere uniche e plurali allo stesso tempo, offre una linfa inesauribile con la quale gli scrittori hanno spesso riempito di inchiostro le loro penne. Peraltro, per una di quelle felici coincidenze che la lingua ogni tanto regala, la parola «città» fa parte di quei vocaboli che in lingua italiana restano invariabili tra singolare e plurale.
Una lunga premessa, fare le valigie – per così dire – prima di partire per un breve viaggio. Il viaggio in questione dovrebbe percorrere qualche chilometro attorno al globo seguendo le orme di alcune canzoni. Si tratta, ancora una volta, di disegnare una mappa: come si è detto, porsi in ascolto del dialogo fra un’opera e un luogo è una costruzione, è cartografia. [Piccola nota: non ci si vuole soffermare più di tanto sul noioso dibattito che divide chi considera (spesso ingenuamente) la canzone «letteratura» (o più ingenuamente, «poesia»), e chi rifiuta (spesso snobisticamente) l’appartenenza di questa forma di linguaggio artistico alla Letteratura (rigorosamente con la maiuscola). Diciamo solo che sì, dai, possiamo considerare le canzoni un fatto letterario.]
Dunque, si parte! Le canzoni del noto cantautore italiano Francesco Guccini costituiscono un vero e proprio itinerario geografico della sua vita. Esse nascono profondamente ancorate al territorio che rappresentano e che le hanno nutrite e ispirate. Oppure, grazie a un lavoro di sapiente immaginazione, Guccini ci conduce in luoghi fantastici, allegoria delle condizioni umane, salti nel passato o premonizioni di ciò che un giorno potrebbe verificarsi. Ma rimaniamo sulle città. Gli artisti, e nella fattispecie i cantautori, offrono non di rado bellissimi ritratti delle loro città di origine o di elezione. La mappa gucciniana, per quel che la riguarda, di ritratti ne offre tantissimi.

Il punto di partenza si situa ai bordi di una periferia umbratile, incassata tra le opposte sponde d’Emilia e di Toscana, adagiata su un pendio appenninico: Pavana (proparossitono: Pàvana), un piccolo paese, uno fra i tanti borghi italici, altrimenti destinato allo spopolamento e all’oblio dei più. Eppure, queste quattro case hanno tanto da raccontare. Nella poetica gucciniana Pavana ha assunto un ruolo centrale, una rappresentazione estremamente densa di significati. Da Pavana proviene la famiglia del cantautore, a Pavana Guccini trascorreva le estati durante la guerra. Da questi due semplici dati biografici si innesta un intreccio di significati e di simboli del complesso immaginario poetico gucciniano. La famiglia, le radici: la ricerca della propria identità attraverso l’indagine sulle proprie origini. Si è quel che si è per via di misteriosi fattori, per pietre, alberi e fiumi che erano lì ancor prima della nostra nascita, e per tutte le persone che erano lì prima di noi. Radici, un album e una canzone di Guccini che si costruiscono attorno a questa domanda: chi sono? Gli antenati, i luoghi, le case, sono interrogati alla ricerca di una risposta: ma sono «parole troppo grandi per un uomo», purtroppo. «Io più mi chiedo e meno ho conosciuto»: si può fare appiglio solo a una vaga sensazione che sorge inspiegabilmente: «un grande senso di dolcezza» nel ricordo fittivo del non-vissuto.
Il viaggio prosegue a Modena, la Piccola città dove venivano trascorsi gli altri mesi dell’anno, quelli della vita quotidiana, dalla pubertà all’adolescenza. Modena, non un piccolo borgo incastonato fra i boschi (Pavana, l’infanzia), non la grande città (Bologna, la piena giovinezza), rappresenta allegoricamente quest’età di mezzo tra l’essere bambini e l’essere giovani adulti. Il ritratto della piccola città si costruisce sul ricordo analitico di quella bastarda età che è l’adolescenza: a differenza delle radici, che hanno il fascino del non-vissuto, Modena ha quel dolceamaro sapore della vita vera, la storia vissuta sulla nostra pelle, quella con cui bisogna fare i conti crescendo.
Crescendo: si arriva a Bologna, la città della maturità. Sulle sponde della «Parigi minore» si concentra un lungo tratto del percorso artistico di Guccini, che culmina con l’omonima canzone contenuta nel quasi-concept-album dedicato proprio al tema della città, Metropolis. Bologna è la città delle storie d’amore, le prime importanti, quando «credevo che Bologna fosse mia». È la città della coscienza politica: «ma avevo la rivolta fra le dita» (Eskimo). È una città tutta da esplorare, dell’emancipazione culturale («della rive gauche l’odore» di Bologna) in Via Paolo Fabbri 43; è la città delle amicizie, della convivialità (cioè delle sbornie) nelle osterie di fuori porta. Ma è anche la città della scoperta dell’angoscia, del vuoto, delle delusioni amare, delle speranze perdute, quella città stanca che avrebbe bisogno di un vento di Scirocco che sparigli tutte le carte. È una città che, stanca replica di sé stessa, presto o tardi andrà abbandonata.

La prima possibile fuga è l’evasione in terre lontane, tramite viaggi reali e immaginari, presenti o passati. Le canzoni che intraprendono la via di queste diramazioni sono notevoli. Memoria e storia familiare, biografia e finzione si dosano in alcune delle più riuscite canzoni gucciniane all’esplorazione del continente americano: dall’esperienza dell’emigrazione (Amerigo), alla propria fuga d’amore (100, Pennsylvania Ave), al ritrovamento metastorico e metafisico dell’Argentina, alla scoperta premonitrice di Cristoforo Colombo.
Il viaggio può proseguire in quelle città che si trasformano in un simbolo di resistenza politica: Praga nel ’69 (Primavera di Praga), Genova nel 2001 (Piazza Alimonda), due città ferite dai soprusi del potere, che si uniscono come un solo corpo, si ribellano con tutta la loro forza, diventano il simbolo della protesta, un’immagine indelebilmente marchiata a fuoco. O addirittura, un simbolo che si annienta su sé stesso, di fronte alla sua inaccessibile imperscrutabilità, nel non-luogo per eccellenza, il campo di concentramento di Aushwitz e i Lager tutti.
E ancora un simbolo, ma questa volta più evanescente, le città di altre indimenticabili canzoni. Così tutte quelle la cui posizione sul limitare di un confine conduce a una riflessione sul senso delle cose, che bussa alle porte della metafisica, rimanendo, però, sapientemente sempre sulla soglia. Qual è il senso della storia, nella Bisanzio di Filemazio, dell’attesa nella torre della sentinella di Shomèr ma mi-llailah?; cosa c’è oltre l’orizzonte umano, nell’oceano della Canzone della bambina portoghese? Come giungere indenni fino a L’ultima Thule?
Al di qua del confine, invece, altri simboli, esistenziali, ad esempio per cercare di comprendere i misteriosi meccanismi della memoria che indugia sul ricordo di una giornata adolescenziale a Firenze (Primavera ’59). O gli interrogativi sui destini qualunque che si intrecciano e si disgiungono sullo sfondo di una Milano di cui Guccini offre un emblematico spaccato sociale (Samantha); o ancora, tornando a Bologna, l’invocazione a uno Scirocco epifanico.
Come si conclude questo viaggio? Non potrebbe concludersi altrimenti che con un ritorno a Pavana. Dopo un’intera vita vissuta, anche l’infanzia diventa storia, se osservata come attraverso un binocolo rovesciato. Quelle quattro case arroccate sull’Appennino assumono pian piano un valore nuovo nella poetica di Guccini, diventano il segno, le vestigia di una civiltà scomparsa: un mondo, una rete di persone, di saperi, di lingue, di culture, estirpata dalla storia (cioè dalla rivoluzione economico-sociale degli anni ’50). Così il cantautore se ne fa cronachista, al limite della microstoria, come ultimo testimone di una comunità sommersa. E allo stesso tempo, si abbandona alla dolcezza della memoria dell’infanzia, nella circolarità delle età dell’uomo, che avvicinano paradossalmente Il vecchio e il bambino. Da quel ruolo di testimone e da questo sollievo memoriale nascono i rumori del mulino nella Canzone di notte n.4 o le liricissime immagini di Natale a Pavana, in cui tutta la famiglia sembra riunirsi per un’ultima volta in un addio delicato come la neve che lo avvolge.
Difficile terminare con parole migliori di quelle degli scrittori. Ci basti allora riflettere su questo viaggio appena compiuto, per rapide e sintetiche tappe, sulle polisemiche città del cantautore. Riflettere su quanto un’opera d’arte, anche (all’apparenza) semplice come una canzone, disegni lo spazio che diventa nostro, riflettere sulla forza della rappresentazione. Come scrisse genialmente Walter Benjamin: si viaggia per conoscere la propria geografia.
