Luigi La Rosa è uno scrittore italiano e parigino. Nato a Messina, nella capitale francese è arrivato esattamente dieci anni fa e non l’ha più lasciata. In Italia, dove tiene dei corsi di scrittura per Rizzoli-Bur, torna sempre volentieri; ma è Parigi la città che ha segnato l’inizio della sua carriera letteraria e che Luigi non ha mai smesso di raccontare. I due titoli che l’hanno reso noto sono Solo a Parigi e non altrove. Una guida sentimentale e Quel nome è amore. Itinerari d’artista a Parigi, entrambi editi da Ad est dell’equatore. Il Touring Club li ha apprezzati tanto da commissionare al loro autore la scrittura della parte culturale e artistica dell’ultima guida verde di Parigi. Il nuovo romanzo di La Rosa, L’uomo senza inverno (Piemme), ha per protagonista Gustave Caillebotte, personaggio fondamentale come artista e come mecenate nella storia dell’impressionismo francese. Il luogo magico che fa da sfondo alla narrazione, ovviamente, c’est Paris.

Luigi, sin dai tuoi primi libri ti sei affermato come narratore di una città, Parigi, che era già stata raccontata nei modi più diversi e attraverso ogni forma d’arte. Come hai superato la paura del già detto, se l’hai avuta, e come sei riuscito ad evitare questo rischio?
Sì, c’era il rischio dello stereotipo, del già raccontato, di quella che potremmo definire “parigitudine”: un’atmosfera sentimentale, un alone magico, che per uno scrittore è mortale. Se cadi lì, cadi nel banale. La paura era grande. Ciò che mi ha spinto ad affrontarla è stata la scoperta che la mia Parigi è fatta di istantanee personali, migliaia di possibilità del mio sguardo. Questo vale per tutti i luoghi, ma per Parigi più che per ogni altro. Puoi raccontarla, attraversarla, decifrarla e interrogarla in infiniti modi. Se tu sei onesto con te stesso come artista, il tuo sguardo sarà originale.
C’è una lunga storia che riguarda gli italiani emigrati a Parigi: da Giuseppe De Nittis alla generazione Erasmus. Cosa si cerca a Parigi? È ancora la meta degli artisti?
Parigi è fatta anche di difficoltà e miseria. È sempre stato così. Non dimentichiamo che gli impressionisti erano quasi degli accattoni, l’arte non ha mai riposato nella ricchezza. Tuttavia, Parigi non ha perso il suo essere richiamo per gli artisti. In nessun’altra città mi capita di trovare gente con così tanti sogni nel cassetto: un dottorato, diventare giornalista o romanziere, lavorare nel teatro, nella moda o nella danza. Tutti lavori che hanno a che fare con l’arte, insomma. Può sembrare un cliché, eppure ancora oggi Parigi lo asseconda. È vero che ci sono città più attive e attrattive dal punto di vista delle possibilità concrete che ti offrono. Il richiamo di Parigi rimane però qualcosa di oscuro e attuale. Resta una città-palcoscenico, nonostante si arricchisca e si complichi di tutte le difficoltà del nostro tempo.

Raccontare la Parigi di fine Ottocento è stato un viaggio nel tempo per te? Dopo il lavoro di documentazione che hai fatto per scrivere questo romanzo, è cambiato il tuo rapporto con la città?
Qualcuno scherzosamente mi definisce un uomo nato nel Novecento ma con l’animo di un ottocentesco. Sono arrivato a Parigi senza interessarmi alla città com’è oggi, ma inseguendo quelli che io chiamo “spettri”: per me Parigi è ancora quella di Balzac, di Baudelaire, di Proust. Le mie suggestioni sono fascinazioni contemporanee, che hanno uno sguardo nel passato: dalla metà dell’Ottocento fino agli anni Venti del Novecento, quando Parigi diventa la città di Fitzgerald e Hemingway, di Modigliani. Poi sicuramente anche la Parigi di oggi ha un suo fascino. Mi accade, però, di camminare per le sue strade e di immaginare le carrozze che passano, sentire il rumore delle ruote. La mia è una città sognata, una Parigi letteraria.
La città è un grande spazio che si costruisce, e nel tuo romanzo racconti una Parigi che sta cambiando volto. Ci sono però anche altri spazi su cui tu ti sei focalizzato: le case della famiglia Caillebotte. Cosa rappresentano nella vita di Gustave?
Credo che nessuno come Gustave Caillebotte sia stato pittore dello spazio. Ha reso l’architettura e gli spazi cittadini materia della sua pittura. I due spiriti più cittadini dell’Ottocento sono stati Baudelaire e Caillebotte. Il primo esaltava la folla, per lui la metropoli era l’energia da cui l’artista attinge. Il secondo fu un pittore-fotografo. Nella prima casa parigina, in rue Miromesnil, Gustave dipinse il famoso quadro Les raboteurs de parquet.

L’altra sua casa in città fu quella di Boulevard Haussmann, un grande appartamento con un balcone circolare che affaccia sul retro dell’Opera. Poi c’è la casa di campagna a Yerres, quella della villeggiatura estiva. Nel momento in cui il gruppo degli impressionisti comincia a rompersi, Gustave perde la sua ragione di vita. Entra in una sorta di crisi e per prima cosa abbandona Parigi: va a vivere a Gennevilliers, un borgo vicino ad Argenteuil, a un’ora da Parigi. Nella capitale tornerà solo da morto, per essere sepolto a Père-Lachaise. Quando la crisi entra dentro di lui, Gustave abbandona la città. È una sorta di morte spirituale, presagio della morte fisica che avverrà dodici anni dopo. Tornando alle case parigine, in quegli anni la capitale francese viene rasa al suolo e i palazzi ricostruiti secondo le logiche urbanistiche del barone Haussmann. Questo nuovo modo di concepire la città prevedeva l’uniformità e una perfezione sofisticata. Pensiamo alle balconate in ferro battuto, alle facciate pallide e curatissime nei dettagli. Questa Parigi è quella che Caillebotte vede nascere e ammira. Molto moderna, come moderna è la sensibilità di Gustave: pittore-cronista che ci racconta il secolo che si sta trasformando sotto ai suoi occhi.
Le stagioni sono fondamentali in questo tuo lavoro. L’inverno, nella sua assenza, dà il titolo al libro. Le altre tre stagioni danno i titoli alle parti in cui è suddivisa l’architettura narrativa. Rispetto ai piani temporali, come hai costruito il romanzo?
Tutto parte dal verso di Mallarmé posto in epigrafe. Il poeta parla di “lucido inverno”, la stagione dell’arte serena. Immediatamente, leggendo questo verso, ho fatto un parallelismo. Ho sentito che la stagione invernale, dell’arte matura e lucida, è quella a cui arriva ciascuno di noi: la vecchiaia. Siccome Caillebotte muore a quarantasei anni, per lui non c’è stata. Il titolo L’ uomo senza inverno allude a questo. Il romanzo è tripartito: primavera, estate, autunno. A ogni stagione corrisponde una stagione della vita del protagonista. Primavera è quando Gustave scopre l’arte guardando il quadro di Manet respinto dal Louvre, Le déjeuner sur l’herbe, e si accorge che nella vita vuole fare quello che fa Manet.

L’estate è una conferma e una maturazione di questa vocazione. L’autunno, invece, prelude alla crisi personale di Caillebotte. L’ho raccontato attraverso due aspetti. Il primo è la solitudine, dovuta al fatto che la sua famiglia si smembra: muoiono il fratello, il padre, la madre. A un certo punto Gustave si ritrova circondato da fantasmi. Questo accresce il suo senso di solitudine e il suo scoramento, forse anche in rapporto all’omosessualità non esplicitata. Poi c’è il secondo aspetto: la crisi dell’impressionismo. Caillebotte ha faticato a mettere in piedi questo movimento composto da gente rissosa. Gli impressionisti, per quanto fossero dei geni, avevano brutti caratteri. Erano uomini troppo diversi tra loro. Gustave deve tenere su una baracca che fa acqua da tutte le parti. Nel frattempo, si scatena la guerra franco-prussiana. Poi c’è la Comune. A un certo punto il movimento si scioglierà e ciascuno seguirà la sua via d’artista individualmente. Quando il gruppo, che per Caillebotte era una sorta di famiglia, si rompe, Gustave avverte un senso di solitudine legato sia alla sua vita personale sia a quella creativa. L’autunno prelude a questa crisi, che lo porterà a fuggire in campagna.
Dicci di più sugli impressionisti. Che tipi erano?
Ho fatto tante ricerche, ho letto molto su di loro. Fondamentale per me è stato il romanzo La vie moderne di Susan Vreeland, dove l’autrice si sofferma sui vari caratteri degli artisti. C’era Monet, quello più duro e risoluto, che fu molto provato dalla morte della prima moglie a causa di un cancro all’utero. Degas era abbastanza solitario e trattava malissimo le donne, picchiava le modelle con la canna da passeggio, però era un uomo geniale nella sua ricerca estetica. De Nittis, un animo dolce: fu il migliore amico di Gustave. Pissarro, uomo provato dal numero enorme di figli e dalla povertà. Cezanne, lunatico e bipolare: arrivava a Parigi, vi restava sì e no dieci mesi, poi stava male e tornava in campagna, ma a quel punto rimpiangeva la capitale. Insomma, ho conosciuto ognuno di questi personaggi e mi piaceva che il romanzo di Caillebotte fosse in realtà il romanzo dell’impressionismo. Gustave è il motore, il vettore che ci guida all’interno di questo affresco più grande di lui.
Ti definisci proustiano. Ne Il tempo ritrovato Proust afferma che il letterato invidia il pittore: anche chi scrive vorrebbe buttare giù degli schizzi, ma se lo fa è perduto. Qual è secondo te la differenza tra l’uso del tempo che fa uno scrittore e quello che invece fa un pittore?
Anni fa ebbi la fortuna di intervistare Michael Cunningham dopo l’uscita del film The Hours (2002). Raccontò un aneddoto molto bello su Monet. Quando chiesero a Monet, ormai vecchissimo, quale fosse il messaggio che voleva lasciare al mondo, lui rispose: “Che non ho imparato nulla”. L’intervistatore replicò: “Ma lei è il grande Monet! Come fa a dire questo?”. Allora Monet aggiunse: “Guardi i miei quadri. Lei riesce a sentire il rumore del vento e del tempo tra le canne? Se non riesce a sentire quel vento e quello scorrere del tempo, io ho fallito: non sono riuscito ad essere nulla”. I pittori – soprattutto gli impressionisti – hanno il bisogno di raccontare l’imprendibilità delle emozioni, nelle loro pennellate c’è sempre una fuga del tempo.
Credo che sia lo scrittore sia il pittore hanno l’esigenza di raccontare il tempo, perché fondamentalmente raccontano storie, seppure attraverso linguaggi diversi. Il tempo del pittore è fisso, l’istante di una storia. Quello dello scrittore, come dice Proust, è in costruzione: leggendo un libro tu senti lo scricchiolare del tempo. Il pittore, come il fotografo, deve scegliere un istante; lo scrittore ha invece l’ambizione di raccontare una storia in movimento. Pensiamo ai romanzieri, che si impegnano nella costruzione di una trama articolata e in evoluzione. Lì gli avvenimenti si avvitano su sé stessi e permettono quel gioco che è il divertimento di ogni narratore: saltare nel passato e nel futuro. La struttura del mio libro è un tempo lungo. La scelta di dare a ogni capitolo una data significa frammentare la durata della narrazione e raccontare le vicende come una somma di attimi, che tutti insieme ci danno l’illusione di una continuità.
Ne L’uomo senza inverno ci sono incubi con “nani dal volto di neonati”, presagi di morte. Ti sei ispirato al gotico?
Sì. Un’altra mia grande passione, quando mi rapporto a Parigi, è la sua dimensione gotica. È una città fatta anche di allucinazioni, di presagi. Le appartiene tutta una dimensione esoterica, magica. Mi è piaciuto giocare con questi elementi. Ad esempio, quando muore il fratello di Gustave, la morte è rappresentata come un avvoltoio che vaga sulle colline del cimitero. Non dimentichiamo che su Parigi sono state raccontate molte storie di fantasmi, vampiri, spettri. L’Horla di Guy de Maupassant, ad esempio. C’è tutta una tradizione letteraria su questa dimensione nera di Parigi, fatta di cieli bui, temporali, cimiteri, di sensazioni e di brividi che rasentano la realtà. Questa dimensione volevo che entrasse nel romanzo, ma in maniera molto distillata. Volevo che fosse una suggestione, e sono contento che sia stata percepita.
L’ultima domanda ci porta ai giorni che stiamo vivendo. Cesare De Seta, a proposito dei tuoi libri precedenti, pubblicati a pochi mesi di distanza dagli attentati alla sede di Charlie Hebdo e al Bataclan, ha parlato di “resistenza estetica” contro i fanatismi e contro il terrorismo. Si può usare la stessa espressione anche per questo tuo nuovo romanzo, uscito in un periodo di pandemia?
L’uomo senza inverno arrivava in libreria il 25 febbraio, pochi giorni dopo chiudeva il mondo. Se noi osserviamo il quadro in copertina, vediamo il fratello di Gustave che guarda fuori dalla finestra. È un’immagine che in qualche modo rappresenta molti di noi nel momento del lockdown: davanti a una finestra, a guardare la vita che sta fuori e una natura che fiorisce. Mi piace pensare che, proprio in termini di resistenza, tutto questo sia profetico e sia anche un simbolo di ciò che stiamo affrontando. Se si ingrandisce quel quadro, si vedono dettagli meravigliosi. Si vede passare una carrozza, una donna, là fuori c’è Parigi. Al di là della finestra c’è una vita che ci aspetta e che ci chiede di tornare.

Intervista di Michele Castelli e Francesca Scerrato