Ho intervistato Brenda Navarro – attivista, esperta in studi di genere e scrittrice messicana – in un corridoio dipinto di giallo in occasione della presentazione a Più libri più liberi 2023 del suo nuovo romanzo, Cenere in bocca, edito in Italia da La nuova frontiera con traduzione di Gina Maneri. Una scrittura reale e potente, che costringe il lettore a fare i conti con il dolore di non sentirsi a casa in nessun luogo, di non avere gli strumenti necessari per gestire la propria sofferenza. In queste pagine c’è una corda tesa tra il Messico e la Spagna, c’è la violenza di genere e c’è la storia di una famiglia non propriamente tradizionale, ammesso che la famiglia tradizionale esista (SPOILER: non esiste). Ma in fondo a tutta questa oscurità si nasconde la speranza, anche se all’inizio si fa fatica a scorgerla. Ma lasciamo che sia direttamente l’autrice a raccontarcelo.
Hola Brenda, ¿Qué tal? Questo romanzo parla di tante cose: l’emigrazione, la famiglia, la violenza di genere, il Messico. Ma qual è, secondo te, la vera forza generativa di questa storia?
Io credo che sia il dolore. È sempre il dolore che si insinua e lega tutti i personaggi tra di loro. Innanzitutto, il dolore della protagonista per il suicidio di Diego, suo fratello, ma anche per il fatto di riconoscere di non essere più una bambina e di dover necessariamente diventare adulta. Poi, c’è il dolore della madre per aver abbandonato i suoi figli, il dolore della nonna nel vedere tutta la sua famiglia partire, il dolore del Messico che è totalmente latente e il dolore della Spagna, che finisce per non comprendere le persone immigrate che la sostengono: lo Stato spagnolo sta rinunciando a una grande opportunità di riconfigurarsi ed evolversi. Quindi non penso al dolore in senso strettamente fisico ma come principio trasformatore: se non hai un dolore fisico o emozionale rimani dove sei. Quando invece è il dolore che muove te o la società è il momento in cui accadono le cose. A me interessa che accadano cose nella letteratura. Credo che Cenere in bocca nasca esattamente da quest’esigenza.

Quindi il dolore come motivazione. A tal proposito, un aspetto che mi ha molto interessato è la relazione tra i due fratelli, Diego e la protagonista. Tra loro c’è una sorta di polarizzazione: due modi differenti di affrontare la vita. Come hai costruito questa relazione? C’è qualcosa di autobiografico?
Credo possa essere autobiografico il fatto che ho una sorella e perciò so bene cosa significhi il concetto di fratellanza e inoltre credevo che fosse importante parlarne perché nel mio primo romanzo (Case Vuote n.d.r.) avevo trattato il tema della maternità e di come noi donne viviamo molte oppressioni a riguardo, quindi mi sembrava interessante cambiare il punto di vista e indagare come i figli e le figlie vivono la maternità e come si genera l’alleanza tra fratelli. Sono convinta, e a volte ho paura di dirlo pubblicamente, che l’unica relazione in cui il mercato e il sistema non sono riusciti ad entrare perfettamente è quella tra fratelli. I fratelli e le sorelle sono le uniche persone all’interno del concetto di “famiglia tradizionale” che sono uguali, sempre in contrasto con il potere della madre e del padre, e questa complicità, questo volersi bene odiandosi allo stesso tempo, mi sembra che sia il grande motore della società, ciò che permette che continuiamo ad esistere. Non importa se odi tuo fratello perché potrai contare sempre su di lui, non importa quanto siate diversi perché ci sarà sempre qualcuno a cui potrai rivolgerti quando sei triste.
Poi mi piaceva questo fatto che i due fratelli protagonisti fossero come il giorno e la notte: lei che parla sempre molto, lui molto silenzioso. Questa dualità nella forma di rappresentarli è come la dualità che esiste in Messico: da un lato gli uomini che sono maltrattati perché sono poveri, perché non corrispondono all’idea dell’uomo bianco in un Paese che quasi lo esige (in questo caso la Spagna), silenziosi, che non sanno esprimere il proprio dolore; dall’altro lato la donna che per la sua capacità di usare la parola come mezzo di espressione sostiene la stessa vita. In questo senso per me è stato importante parlare di fratellanza.
A me sembra che Diego prenda una decisione molto chiara suicidandosi, più netta rispetto alle scelte di sua sorella, che comunque si trova a prendere decisioni importanti. Mi ha colpito molto questo distacco…
Sì, è in quel momento che avviene un confronto vero con la sorella, perché lei continua a domandarsi il motivo per cui Diego abbia compiuto quel gesto, raccontandosi che gli voleva bene ma conscia anche del fatto che fosse diventato un ragazzo insopportabile, un ladro, un bugiardo. Mentre per lei il suicidio del fratello rappresenta uno spartiacque fra il capriccio dell’adolescenza e il coraggio di diventare adulta e di riconfigurare il suo dolore e il suo modo di stare al mondo, Diego decide di non restare in questo mondo. A un certo punto del romanzo dice: «A che serve rimanere in questo mondo? A fare il soldato in Messico o a essere una persona che non riesce ad adattarsi in Spagna?». Suicidandosi è come se avesse affermato: «Almeno questa decisione è mia, non lo hanno scelto per me gli altri senza che io stesso non lo abbia già deciso».
C’è un passaggio molto emozionante, quando la protagonista comincia a mettersi la cenere del fratello morto in bocca, come se volesse incorporarlo dentro di sé. Ho trovato un richiamo antropologico in questo gesto perché, come saprai, presso molte popolazioni dell’America Latina e quindi anche del Messico, ci sono molte celebrazioni legate ai morti, dove addirittura si “mangiano i morti” attraverso cibi antropomorfi, come a rappresentare un ciclo continuo tra la vita e la morte. Perché la tua protagonista mangia suo fratello?
Io credo che non se ne renda conto e ora che me lo dici, certo, c’è un dolce in Messico che si chiama pan de muerto, che è buonissimo tra l’altro, e che mi manca moltissimo vivendo in Spagna…

Sì, lo conosco bene, piace tanto anche a me (ridiamo n.d.r.)!
Ecco appunto… Comunque per tornare a noi, la metafora della cenere in bocca mi sembrava perfetta per rappresentare il dolore che fisicamente si manifesta nella digestione. Anche lei lo dice nel romanzo, che tutto quello che le succede finisce per farle sentire dolore allo stomaco, quindi probabilmente doveva smaltire il dolore causato dalla perdita del fratello, integrandolo al suo corpo per poterlo superare, trasformandolo in rabbia prima e in accettazione poi. Ma non avrebbe potuto farlo senza prima averlo parzialmente digerito. Non è una metafora molto chiara ma è molto spirituale: non c’è dolore che non passi per le nostre viscere.
Questo romanzo parla anche di femminicidio e di violenza di genere. Uno degli ultimi casi che qui in Italia tutti ricordano è avvenuto nel mese di novembre 2023 quando una ragazza di 22 anni, Giulia Cecchettin, è stata uccisa dal suo ex fidanzato, come succede ogni giorno a moltissime donne. Il 25 novembre qui a Roma c’è stata una grande manifestazione del movimento femmminista e transfemminista Ni una menos, a cui hanno partecipato circa 500.000 persone. Ti volevo chiedere, Brenda, qual è la situazione della violenza di genere oggi in Messico? Pensi che stia migliorando qualcosa riguardo la sensibilizzazione delle persone anche da parte del governo?
Il Messico è uno stato femminicida, e io ne sono profondamente convinta. Ci sono molte intellettuali e scrittrici che lo hanno spiegato sicuramente meglio di me, nel loro ambiente si parla molto della Pedagogia della crudeltà e di quello che significa femminicidio, che non è soltanto la reiterazione del “noi continuiamo a fare quello che vogliamo con il corpo delle donne, incluso ucciderle”. Io non vedo alcuna soluzione, ogni giorno in Messico le donne vengono uccise, c’è una violenza normalizzata, c’è una totale mancanza di responsabilità da parte dello Stato e non credo che questo possa cambiare. Quello che sta cambiando è la presa di coscienza delle donne: stanno nascendo molte reti tra di noi. Ricordo che durante una manifestazione, molto probabilmente quella dell’8 marzo, una donna ad un certo punto ha detto: «Il mio aggressore è qui vicino!» e si è creata una catena di donne che l’hanno accompagnata a denunciarlo proteggendola, per impedire che quest’uomo si avvicinasse. Questo tipo di azioni le compiamo senza il permesso dello Stato e credo che siano il motivo per cui continuiamo a sopravvivere, in Messico, in Spagna o in Italia, in tutto il mondo.
Quindi per te la soluzione saranno le reti di supporto reciproco tra donne…
Sì, oltre all’attivismo e alla disobbedienza civile.

In Cenere in bocca c’è anche un tema musicale. Infatti, Diego, il fratello della voce narrante, ascolta i Vampire Weekend, una rock band originaria di New York. Perché hai scelto questa band? C’è qualche motivo in particolare?
Sì, innanzitutto a me piacciono e poi c’è anche un’altra ragione: sono i tipici universitari, bianchi, privilegiati che nelle loro canzoni parlano di temi politici senza realmente mojarse, cioè senza che ciò li riguardi direttamente. I loro testi però sono molto politici e trattano questi argomenti in maniera molto allegra e questo mi fa arrabbiare perché io non riesco a scrivere qualcosa di allegro. Mi sembrava una grande metafora di come un ragazzo razzializzato, povero, si voglia rifugiare in questo sogno americano o europeo che non riuscirà mai a raggiungere, e quindi l’unica maniera di viverlo è tramite la musica. Volevo anche fare un’autocritica del perché mi piaccia la musica di questo tipo e del perché io abbia così interiorizzato il sogno americano. Di questo mi sono resa conto solo vivendo in Spagna, perché in Messico gli Stati Uniti sono molto vicini e le aspirazioni si costruiscono molto in questa direzione, mentre vivendo in Europa è stato più facile per me “disamericanizzarmi”.

Brenda, a questo punto, mi è rimasta un’unica cosa da chiederti: dov’è la speranza in questo romanzo? Ammesso che ci sia…
Io credo che il momento in cui viene fuori in maniera evidente è quando la protagonista dice: «Io ho due madri». La storia comincia con lei che è arrabbiatissima con la madre, sentendosi una sua vittima e finisce con la consapevolezza che la madre è anche una donna e che può contare non solo su di lei ma anche sulla sua compagna Jimena, e pensa che forse può stare tranquilla sul concetto di maternità, sul fatto di essere figlia e sul fatto di sapere che la famiglia non deve essere per forza “tradizionale” ma che gli affetti, le relazioni tra donne – ma vale lo stesso per gli uomini – risiedono non nel cercare ciò di cui si ha bisogno all’esterno ma nel tirare fuori il meglio da ciò che si ha. Questo credo che dia molta speranza perché è quello che rimane a tutte le persone che non possiedono mezzi di produzione né soldi, che probabilmente non avranno mai la pensione: la compagnia e gli affetti.
L’affetto è alla base della rivoluzione e voglio ripetere questa cosa: non esiste movimento sociale, politico, femminista e non, che abbia cambiato tanto il mondo se non con questa sola arma. Questo è semplicemente meraviglioso.

