È difficile immaginare la poesia di Giorgio Caproni senza pensare a Genova. Livornese d’origine, vi si trasferisce da bambino e fa della Superba e del suo entroterra il luogo privilegiato dell’ispirazione poetica. Questo però non si traduce in una riproduzione oleografica, non si ferma quindi a una descrizione stereotipata della città, come ricorda Giorgio Devoto nell’introduzione alla raccolta Genova di tutta la vita, ma va oltre: il suo occhio è attratto dalla struttura della città, dai suoi vicoli e dalle salite, dai carruggi…
«La mia città dagli amori in salita,
Genova mia di mare tutta scale
e, su dal porto, risucchi di vita
viva fino a raggiungere il crinale».
In questi versi di Sirena non c’è nulla di spirituale. La verticalità di cui parla è concreta, architettonica e in un’intervista radiofonica aggiunge:
«È curioso come questo mio verso, “la mia città dagli amori in salita”, dai più è stato inteso in senso spirituale, ma viceversa è che ai miei tempi, purtroppo, fare l’amore… fare all’amore era una vergogna, scandalo, e quindi dovevamo nasconderci, se eravamo in paese, dietro il muro del cimitero, no?, di notte, e in città s’andava a cercare queste creuze… poi a Genova sono in salita e quindi non era tanto facile, con la ragazza appoggiata al muro…per abbracciarla…».
Di quel periodo, i primi anni Cinquanta, è anche Litania. Un inno, un ritratto di Genova: 91 distici straordinari nei cui versi dispari viene ripetuta la parola Genova seguita da brillanti associazioni verbali. Il poeta ligure Giuseppe Conte l’ha definita: «una poesia in cui si va come in altalena, si sale, si cade, ci si dondola, ci si feriscono le ginocchia, ci si lascia prendere allo stomaco. […] un testo enigmatico, tutto endiadi, apposizioni, contrasti folgoranti […] e vortici di rime inattese». A riguardo vanno menzionati la lettura che ne ha fatto Toni Servillo in occasione del Festival della mente di Sarzana nel 2008, e il libro Genova ch’è tutto dire di Patrizia Traverso e Luigi Surdich, i quali hanno ripercorso i distici contestualizzandoli nell’opera e nella vita di Caproni, associandoli a delle fotografie della città. Anche qui ritorna il motivo della verticalità.
«Genova città pulita.
Brezza e luce in salita.
Genova verticale,
vertigine, aria, scale».

Il poeta in un’intervista pubblicata sul numero 42° della rivista «Weekend», nell’ottobre del 1977, scrive della città:
«Ma ragioni sentimentali a parte, forse fu in primo luogo la sua verticalità ad esaltarmi fin dal primo impatto. Con le sue salite, rampe, le sue scalinate, i suoi ascensori pubblici, le funicolari e le sue strade disposte una sull’altra, Genova è infatti una città tutta verticale. Verticale e quindi, almeno per me, lirica, se non addirittura onirica».
Sempre nella stessa raccolta, Il passaggio di Enea, ritroviamo la Genova di ascensori e funicolari di cui parla Caproni: quella Genova affacciata sul mare con i monti che le coprono le spalle.
Ne Le stanze della funicolare c’è un gioco di luci, moti, suoni. Qui il viaggio nella nebbia della funicolare, che conduce da largo Zecca a quello che è oggi piazzale Caproni, diventa esistenziale. È allegoria della vita umana, un inarrestabile viaggio verso la morte, dal buio del primo tratto che può alludere al ventre materno allo sbocco all’aperto, come nascita, fino alla meta – morte –, l’ultima stazione avvolta nella nebbia, trainata dal cavo che è il tempo.
«Una funicolare dove porta,
amici, nella notte? Le pareti
preme una lampada elettrica, morta
nei vapori dei fiati – premon cheti
rombi velati di polvere e d’olio
lo scorrevole cavo. E come vibra ai vetri
anneriti dal tunnel, quella pigra
corda inflessibile che via trascina
de profundis gli utenti e li ha in balia
nei sobbalzi di feltro! È una banchina
bianca, o la tomba, che su in galleria
ora tenue traluce mentre odora
già l’aria d’alba? È l’aperto, ed è là
che procede la corda – non è l’ora
questa, nel buio, di chiedere l’alt».

Anche ne l’Ascensore (1948), che si riferisce a quello che dal centro storico porta a belvedere Castelletto, si entra in una dimensione onirica, quasi surreale. In questo componimento appare per la prima volta la figura della madre, Anna Picchi, ritratta da giovane.
«[…]
Quando mi sarà deciso
d’andarci, in paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto, nelle ore
notturne, rubando un poco
di tempo al mio riposo.
[…]
Ma là sentirò alitare
la luce nera del mare
fra le mie ciglia, e … forse
(forse) sul belvedere
dove si sta in vestaglia,
chissà che fra la ragazzaglia
aizzata (fra le leggiadre
giovani in libera uscita
con cipria e odor di vita
viva) non riconosca
sotto un fanale mia madre.
Con lei mi metterò a guardare
Le candide luci sul mare.
Staremo sulla ringhiera
di ferro – saremo soli
fidanzati, come
mai in tanti anni siamo stati.
E quando le si farà a puntini
al brivido della ringhiera,
la pelle lungo le braccia,
allora con la sua diaccia
spalla se n’andrà lontana:
la voce le si farà di cera
nel buio che la assottiglia
dicendo: «Giorgio, oh mio Giorgio
caro: tu hai una famiglia».
Malinconia, dolore. Caproni scrive questa poesia in via Bernardo Strozzi, dove vivevano i genitori – «Genova di singhiozzi/mia madre, via Bernardo strozzi» –, di ritorno da Roma, dopo aver sentito la condanna irrevocabile del medico sullo stato di salute della madre.

Anna Picchi morirà dopo due anni, nel 1950, e Caproni le dedicherà la raccolta Il seme del Piangere, ritraendola come una giovane di cui dice senza malizia di essere freudianamente innamorato. Anna era una bella ragazza e un’ottima ciclista, il che all’epoca faceva scalpore: «Per una bicicletta azzurra/Livorno come sussurra![…]Annina sbucata all’angolo/ha alimentato lo scandalo./Ma quando s’era mai vista, in giro una ciclista!». Era anche un’ottima sarta, apprezzata e conosciuta in città.
«L’ora di mattina
presto, ancora albina.
Ma come s’illuminava
la strada dove lei passava!
Tutto Cors’Amedeo,
sentendola, si destava».
Ed è proprio ricordando la madre che Caproni rievoca la città della sua infanzia, Livorno, dov’è nato – «Genova di Livorno, partenza senza ritorno».
Nei versi livornesi de Il seme del piangere Caproni, in un’intervista, dichiara di aver fatto alla maniera di Guido Cavalcanti: provando nostalgia per la città e non potendoci tornare, invita l’anima sua a cercare Annina.
«Anima mia, leggera
Va’ a Livorno, ti prego.
E con la tua candela
timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancor viva tra i vivi».
Livorno gli “è rimasta sempre nel sangue”. Da quando l’ha abbandonata nel 1922 alla volta di Genova, per lui è incominciato un lunghissimo esilio.
Ma un altro stacco, un altro abbandono, avviene nel 1939 e poi definitivamente a metà degli anni Quaranta. Il poeta, infatti, si trasferisce a Roma, lasciando Genova e la Val Trebbia, Rovegno nello specifico, dove aveva ottenuto un incarico come maestro elementare, luogo quest’ultimo che comparirà nella fase più matura della sua produzione poetica.
Già ne L’ascensore la sua scrittura supera il Caproni della gioventù, ancorato al bisogno della parola che fotografa e alla concretezza che caratterizza le prime raccolte, ad esempio Come un’allegoria («Anche le vampe fiorite/Ai balconi di questo paese,/ labile memoria ormai/ dimentica la sera/ Come un’allegoria,/una fanciulla appare/sulla porta dell’osteria»).
L’ascensore può essere considerato come un tentativo da parte del poeta di cercare soccorso, un riparo, di risalire a quell’ “odor di vita viva”, e ricreare la figura della madre come un corpo pieno di vita, per arginare il dolore.
Ma subito ritorna la realtà, Roma, dove ha famiglia e dove deve discendere, come fosse agli inferi:
«E io dovrò ridiscendere,
forse tornare a Roma.
Dovrò tornare a attendere
(forse) che una paloma
blanca da una canzone
per radio, sulla mia stanca
spalla si posi. E alfine
(alfine) dovrò riporre
la penna, chiuder la càntera:
«È festa,» dire a Rina
e al maschio, e alla mia bambina».
Sulla scena appare Rina, la moglie, cui è dedicata la seconda parte del componimento.
«E mentre, stando a terreno,
mite tu dirai: «Ciao, scrivi,»
ancora scuotendo il freno
un poco i vetri, tra i vivi
viva col tuo fazzoletto
timida a sospirare
io ti vedrò restare
sola sopra la terra:
proprio come il giorno stesso
in cui ti lasciai per la guerra».
La poesia si conclude quindi con un’altra nota di dolore, quella per la guerra cui partecipa.
Sono anni cupi, in un’intervista definisce la decade tra il ’44 e il ’54 come “anni di bianca e forsennata disperazione”.

L’Italia postguerra è una nazione che soffre. E nell’anno in cui scrive l’Ascensore, il 1948, avviene l’incontro con quello che per lui è il simbolo dell’esistenza umana di quegli anni: la statua di Enea.
Un monumento che si trova in piazza Bandiera, la piazza più bombardata di Genova, in cui il Baratta ha ritratto Enea con in spalla il padre Anchise e per mano il figlio Ascanio.
Sempre nell’intervista uscita su «Weekend» egli afferma: «In quel povero Enea vidi il chiaro simbolo dell’uomo della mia generazione, solo in piena guerra a cercar di sostenere sulle spalle un passato (una tradizione) crollante da tutte le parti, e a cercare di portare a salvamento un futuro ancora così incerto da non reggersi ritto…».
Caproni in quegli anni vive ormai a Roma. È sposato con Rina e ha due figli, scrive per riviste, stringe amicizia con letterati come Pasolini, Gatto e Bertolucci, e inizia la sua carriera di traduttore di scrittori di rilievo, tra cui Proust, Machado e Frénaud. A riguardo merita la raccolta Il quaderno di traduzioni curato da Enrico Testa. Questo può essere definito come il secondo strappo. Se ne va dalla sua città d’adozione, di cui continua a scrivere. Come afferma Stefano Verdino nella prefazione a Caproni, tutte le poesie:
«Genova, esaltata nei suoi specifici aspetti e nei suoi termini toponomastici, non a caso, dal Caproni “romano”, quando cioè Genova è “perduta” ed è un alimento che dalla memoria fluisce nell’invenzione e nella scena del testo. Dal Muro sarà preferita l’alta valle Trebbia, i cui termini concreti costituiscono peculiari ingredienti […] per l’ultima spettrale stagione».
Il rapporto tra il poeta e queste due città è ritratto in questa poesia – Il Gibbone, 1964 –:
«No, non è questo il mio
Paese. Qua
–fra tanta gente che viene,
tanta gente che va –
io sono lontano e solo
(straniero) come
l’angelo in chiesa dove
non c’è Dio. Come,
allo zoo, il gibbone.
Nell’ossa ho un’altra città
che mi strugge. È là.
L’ho perduta. Città
grigia di giorno e, a notte,
tutta una scintillazione
di lumi – un lume
per ogni vivo, come,
qui al cimitero, un lume
per ogni morto. Città
cui nulla, nemmeno la morte
– mai, – mi ricondurrà».
La poesia appare la prima volta in una sua lettera a un amico, Carlo Betocchi, in cui Caproni racconta il suo disagio di stare a Roma e che spesso torna a Genova e in Val Trebbia d’estate. Le due città non sono espressamente citate dal poeta, che di solito ama il nome proprio, la toponomastica. Qui vi è un rapporto allegorico con le città. Dalla situazione biografica del poeta possiamo arguire che il Paese della prima strofa sia Roma. Emerge un senso di estraneità, quello della voce narrante che prova nostalgia per un luogo di identità ormai lontano: Genova appare come un miraggio, la città perduta, che lo strugge – «Genova che mi struggi/intestini, carruggi» – . Ma estraneità anche a livello esistenziale.
Prevale la consapevolezza che oramai tutto è irrimediabilmente perduto.
Ritroviamo il contrapporsi di due città, Roma e Genova nello specifico, motivo noto in letteratura fin da Sant’Agostino. Nello stesso anno Mario Soldati pubblica un romanzo, Le due città.
Questa contrapposizione Roma-Genova, come fa notare Luigi Surdich nell’intervento Genova per Caproni, si radicalizza nella poesia, mentre il “disamore” caproniano per Roma andrebbe smussato ricercandolo nella prima impressione, nel primo incontro del poeta con la Capitale, negli anni Trenta, il quale ne parla in questi termini: «una Roma amatissima. Roma mi abbagliò, (letteralmente mi abbagliò) negli ultimi anni Trenta, quando vi calai la prima volta».
E anche se resta una città che sente di non aver mai capito, che per lui ha un che di mediorientale, in un’intervista a Ferdinando Camon afferma:
«Non lascerei Roma, forse nemmeno per Genova. […] In nessun’altra città d’Italia, e forse del mondo, credo si possa godere la libertà che si gode a Roma». Ma Roma rimane città di domicilio, non città natale, né dell’anima, come definiva la Superba. E in questo Livorno e Genova si fondono in qualche modo nel loro essere città abbandonate e mai dimenticate.
«E invece lascerò Genova,
l’estate dei rimorchiatori […]
lascerò Genova
e entrerò nella tenebra».

Quella Genova «di tutta la vita» che amava a tal punto da non vederne i lati negativi, città che lo aveva “stregato”, di cui era “fatto” e che si portava dentro. Un legame che come afferma Surdich vede una connessione tra emozione e turbamento, possesso e privazione. E questo legame che sussiste, per Giovanni Raboni, è unico proprio perché esiste una doppia condizione: «Caproni sceglie Genova come “oggetto d’amore”, condizione che può avvenire solo se non ci si è nati, se non ci si è già dentro, e poi la abbandona, quindi avviene il distacco». Ma non va letta solo come un tema quello di Genova, “la primaria immagine della città si allarga in una dimensione universale”, città reale e metafisica, storica e allegorica, grigia, di luci e scale.
«Ne approfitterò per godermi ancora una volta […] l’impareggiabile spettacolo della Genova notturna. […] Lunghe file di luci. Quando ero bambino, quei lumi, l’ho già detto, li vedevo nascere uno per uno. Oggi mentre la lanterna ha cominciato a carezzare il cielo, si accendono tutti insieme, di botto.Anche in questo senso capisco la domanda che per tutti noi si pose il poeta marsigliese Joseph Autran:
Fut-il jamais une ville mieux faite pour inspirer la poésie?».
È mai esistita una città migliore per ispirare la poesia?
La foto di copertina è di Dino Ignani