Ho scoperto Letizia Battaglia per caso, in una domenica pomeriggio al museo MAXXI di Roma. È stato un incontro folgorante, come d’altronde lo sono tutte le sue fotografie.
Mi colpì subito l’inizio del suo percorso da fotografa. Totalmente controcorrente, la sua vita è una bellissima favola moderna, una storia che merita di essere raccontata a tutte le bambine del mondo e non solo. Letizia Battaglia non ha avuto nessun principe che l’abbia salvata se non il suo analista. All’età di dieci anni incontra un orco – un uomo che la molesta per strada -, ed il padre, per proteggerla dai “cattivi”, decide di rinchiuderla in casa. Non è un enfant prodige ma una donna semplice con un grande desiderio di libertà, che in piena adolescenza pensa di poter trovare nel matrimonio, ma questo si trasforma presto in una bellissima gabbia dorata. Poi il colpo di scena: all’età di trentanove anni e con tre figlie a carico, lascia tutto per andare a lavorare come giornalista a Milano.
È il mese di agosto, molti giornalisti sono in vacanza e così viene assunta. L’età in cui decide di cambiare vita è uno dei dettagli che mi colpì tantissimo quando conobbi la sua storia. Nel mondo occidentale, a trentanove anni, una donna è considerata matura, ormai i giochi sono fatti, pensare di poter rivoluzionare la propria vita in un momento in cui tutti si attendono da te stabilità, è forse l’elemento più interessante della sua biografia. Battaglia non solo riesce ad appropriarsi del lavoro che desidera, ma successivamente riscopre l’amore con un uomo, Franco Zecchin, molto più giovane di lei.
Oggi dirige il Centro Internazionale di fotografia di Palermo; è stata la prima donna europea a ricevere il prestigioso premio Eugene Smith. Nel 2017 è stata inserita nella classifica del «New York Times» tra le undici donne più influenti al mondo. Se non è questa è una favola, allora cosa lo è?
La fotografia arriva per caso, quando la redazione, oltre agli articoli di giornale le chiede di fotografare. Da quel momento, che sia con una Pentax K1000 o con una Leika, l’importante è scattare. Nel 1974 torna a Palermo grazie all’offerta ricevuta dal giornale L’Ora. Nello splendido libro in collaborazione con Sabrina Pisu Mi prendo il mondo ovunque sia Battaglia scrive: «Se ci guardo, mi rendo conto di non essere nata una sola volta, la mia storia non è stata una linea retta. Mi sono spezzata e sono ripartita più volte, ogni volta più consapevole di prima».
In uno dei momenti più tragici della storia italiana lei c’è: il corpo di Piersanti Mattarella appena ucciso nelle braccia del fratello – attuale presidente della Repubblica – Sergio Mattarella.

Un’altra foto celebre è quella che ritrae il malavitoso Nino Salvo e Giulio Andreotti, il quale ha sempre negato di aver incontrato l’uomo. Rigorosamente in bianco e nero, come tutto il suo archivio, quello tra Battaglia e la mafia diventa un appuntamento fisso. Gli Anni di Piombo si sono cristallizzati nell’obiettivo della fotografa. Ogni volta che avviene un omicidio in Sicilia lei è lì: pronta a catturare i tragici eventi della storia di Palermo. Senza chiedere nessun consenso, espone le sue foto nella roccaforte della criminalità: Corleone. La regione vive abbagliata dallo scintillio del miracolo economico avvenuto grazie agli affari loschi della mafia. Palermo diventa ricca con l’arrivo dell’eroina. Il tenore di vita della popolazione, in dieci anni, cambia radicalmente.
Una volta decide di provare il colore ma non si rivela adatto a raccontare fatti così amari, privi di giustizia, di etica e di senso e un giorno peggiore per sperimentarlo non può essere scelto: «un bambino meraviglioso a pancia in giù in un lago di sangue. Ammazzato dalla mafia perché ha visto i killer di suo padre. Il mio unico bambino ammazzato, il mio unico rullo a colori». Gli scatti che Battaglia restituisce alla sua città durante gli anni Ottanta sono dei silenziosi gridi di aiuto, ed effettivamente per fotografare i morti ammazzati deve urlare, imponendosi contro chi non vuole farla passare in quanto donna. Palermo è sotto una guerra non dichiarata, ma esistente. L’angoscia e la solitudine respirano nelle immagini della fotoreporter, così come la dignità restituita a Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani, agente della scorta di Giovanni Falcone. «Quel volto bellissimo, con gli occhi chiusi, è anche il simbolo della dignità di questa donna, di tutte queste donne che rimaste vedove continuano la lotta dei loro mariti».

Immergersi nel panorama mafioso è stata una condizione necessaria per amore e rispetto nei confronti di Palermo, ma la città non è solo questo e il suo occhio è stato in grado di osservare con discrezione gli ultimi, di fermarsi e trovare la bellezza lì dove l’occhio comune guarda con negligenza.
«Palermo è come una bambina, che vuole crescere, diventare grande, diventare la maestra o la principessa, sogna di diventare una persona felice».
Essere una fotoreporter significa anche far vivere nella propria memoria il ricordo indelebile del sangue dei morti, vivere con un tarlo che ti mangia continuamente. Battaglia per un periodo smette anche di fotografare. Ma i morti non cambiano, l’unica cosa che si può cambiare è farli vivere nella nostra mente in una forma diversa. Così decide di aggiungere «una foto di morte ad una foto viva».

I suoi soggetti preferiti sono le donne: bambine, specialmente quelle sui dieci anni. In ognuna di loro cerca di ritrovare sè stessa. Donne stanche, madri, lavoratrici, prostitute, donne che soffrono ma che agli occhi di chi le cattura mantengono la loro forza vitale.
Tra i pochi ritratti di uomini, uno spicca in particolar modo nella sua collezione: Pasolini, incontrato nel 1972 al circolo Turati di Milano. Il poeta viene ritratto con le mani in pugno sul volto, stanco e sofferente. I suoi occhi non si vedono, ma Battaglia percepisce e riporta all’altro il significato di quel momento:«In quel secondo il fotografo si porta dietro quello che sa della vita, dell’arte, quello che ha visto, studiato e mediato… è il modo in cui si orienta lo sguardo che racconta il mondo».

La fotografia non basta per essere parte attiva del cambiamento. Nel 1987 Battaglia diventa assessore alla vivibilità urbana, ai parchi, al verde e all’arredo urbano, insegnandoci che la gentilezza è ancora un’arma potente per il bene comune. La prima azione che compie da politica, è far mettere delle panchine davanti al carcere dell’Ucciardone perché ogni volta che passa di lì vede le donne che vanno a trovare i detenuti, costrette ad aspettare tempi biblici, cariche di roba da portare ai propri uomini. Seguono altri numerosi lavori sempre con un unico obiettivo: far rifiorire Palermo attraverso l’impegno e la felicità di tutti.
Battaglia è andata via molte volte da Palermo, ma alla fine è sempre tornata. Non si ferma mai, è inarrestabile. Il dolore per questa città è diventato il suo, ma non è un dolore che consuma, è un dolore che diventa la spinta per fare meglio.
«Fotografare per me è un atto d’amore e l’amore vero è conoscenza, per entrare in contatto con un luogo e la sua gente serve molto tempo. Io sono una fotografa palermitana e solo le fotografie fatte a Palermo mi raccontano nel profondo».

Immagine di copertina: foto di Salvatore Pipia