I ricordi, insieme ai sogni, sembrano essere il paradigma con cui scandire i pensieri degli ultimi dodici mesi, un tempo così lungo per la fretta e quasi polvere nell’arte della pazienza. Ci sono quelli che si aggrappano ai luoghi, poiché non hanno trovato ancora nelle persone.
A riprodurli saranno i nove metri quadri, nella numerologia del nove che tanto mi disegna nel tempo e negli eventi, in questo destino imprevedibile in cui le nostre giornate si costruiscono nel passato o nel futuro, mentre il presente scorre fra la ripetizione di gesti o l’angoscia dell’assenza.
Sono arrivata perfino a inventare un mio mantra, una frase che mi ripeto spesso per incoraggiarmi: “Mi devo fare” fra il senso di responsabilità e l’istinto.
Difficile scegliere un museo preferito a Parigi. Un po’ per Parigi stessa, così colma di qualità nella quantità, un po’ per me, per non aver mai concesso spazio a un numero uno nel mio breve cammino, evitando così di scartare l’eccellenza fra le eccellenze.
Ricordo il primo giorno in cui mi resi conto veramente che rischiavo andate e ritorni continui nello stesso quartiere per tutte le cose che non avevo ancora visto, per tutte le altre che dovevo assolutamente vedere.
Dalla restrizione al grande orizzonte il passo è molto breve. Soprattutto quando i ricordi tartassano e l’immaginazione freme.
E i giardini hanno preso il sopravvento all’improvviso.
Come spazio parallelo, transizione fra i luoghi, finestra abitabile e composizione museografica. Ripercorro le memorie fresche, quelle un po’ più lontane, più stinte ma pur sempre preziose; le fotografie hanno un compito fondamentale fra la ricostruzione del piacere e la responsabilità di farne un omaggio fedele.
A questa mancanza sommerò quella dei corpi, da osservare, contemplare e averne cura sempre, dato che è di questo che mi sono occupata nei musei di Parigi.
Tutte queste considerazioni mi portano ai giardini dei musei che ho frequentato più a lungo, dove il tempo umano si allineava sulle note di un tempo sospeso, passato: il contorno di uno scrigno o anche all’interno dello scrigno stesso, mentre corpi fermi a tutto tondo scandiscono i passi.
Penso quasi ovviamente al Museo Rodin, lo scultore francese delle forme arrotondate, delle passioni da scalpellare fino a farle ricordare, scelto dallo scultore stesso, per starci e affidarlo nel tempo a venire al Paese. Un grande Io, una grande passionalità, con tutte le controversie che ne seguono.
Rodin, per me, è anche un’idea, due luoghi, quattro con i giardini, spazi integrati e, al tempo stesso, identità a sé stanti.

Al museo parigino ci ho messo piede per scelta, come tappa itinerante imprescindibile di una studentessa di storia dell’arte o semplicemente di una curiosa inarrestabile. Un orizzonte aperto, perfettamente ordinato, tra le aiuole, i sentieri e i compartimenti paralleli.
Nessuna sensazione di perdizione, solo presenza e ritmo. Sequenze che si incastrano a perfezione le une con le altre, dialogano fra di loro e disegnano geometrie precise a far il contorno delle curve mai finite dell’atelier Rodin. Loro, fanno presenza discreta e imponente al tempo stesso, sparse un po’ fuori per ammaliare, raccolte un po’ dentro a una galleria per incuriosire.

In questo completarsi, il mio passo estraneo, diventava leggero anche sui ciottoli; c’era pace. Rodin scelse anche Meudon, per starci, lavorare, invitare e creare, fino all’ultimo giorno.
Un luogo più raccolto e isolato, da cui poter vedere la grande città dall’alto, che diventò ben presto un atelier fervido ed animato. Poterci oggi fare un giro – meglio ancora una camminata accorta e silenziosa – vuol dire ripensare a questo animarsi di pietre e scalpelli, mentre i discorsi si nascondono fra i rumori che furono, il fiato ringrazia e la vista si appaga.

Vuol dire anche ritrovare un fait-maison con l’accortezza di un percorso didattico: il tema dei calchi in gesso, bagnati dal timido sole al filtro delle vetrate, e poi il ritrovamento di un eterno amore per l’antico.

.. è veramente meraviglioso viaggiare con te… grazie
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