Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore […]
U. Saba
Avevo solo diciannove anni quando per la prima volta misi piede a Trieste. Senza sapere come sarebbe andata, ero felice e anche maledettamente spaventata. Quando partiamo non possiamo sapere cosa ci aspetta; pensavo proprio a questo mentre, dal sedile posteriore dell’auto di mio padre, osservavo il mondo scorrere fuori dal finestrino, rapita dall’incanto dello scintillio del sole sulla superficie del mare. Sembrava già passata una vita dal giorno della maturità, e invece erano trascorsi appena due mesi e mezzo. Chi ero io? Dove stavo andando? Sarei stata in grado di affrontare l’università, il nuovo mondo che mi aspettava? Avrei incontrato degli amici? Persa nella mia calma apparente, mi sentivo particolarmente affine al mare che vedevo sfrecciare a pochi metri da me: così placido in superficie, nasconde sempre un caotico brulicare di vita non appena si scende in profondità. Ecco, mi sentivo esattamente così mentre percorrevo insieme ai miei genitori gli ultimi chilometri che mi separavano dalla mia nuova avventura.
Il mio incontro con la città fu un colpo di fulmine, abbagliante come le candide facciate dei palazzi di austroungarica memoria, come i mosaici che rivestono gli edifici che circondano Piazza Unità d’Italia, magico specchio per il sole quando, con i suoi raggi, crea una danza di riflessi aranciati. Quella notte dormii in albergo, o almeno ci provai. Dentro di me avvertivo un’aspra lotta tra sentimenti opposti: amore e paura, entusiasmo e insicurezza, follia e prudenza. La mattina dopo, in piedi su quel marciapiede, salutavo i miei genitori, già seduti a bordo di quell’auto nera che sin dall’infanzia era stata il mezzo di trasporto prediletto per i viaggi di famiglia. Ricordai i giochi e le litigate con mio fratello, le canzoni, le gare per trovare la goccia più veloce sul finestrino mentre sfrecciavamo in autostrada nei giorni di pioggia, i disegni con le dita sul vetro appannato, gli innumerevoli «Mamma, fra quanto arriviamo?». Poco dopo, vedendo l’auto dei miei diventare sempre più piccola man mano che si allontanava verso l’estremo opposto delle Alpi, ero sicura che mia madre e mio padre stessero lasciando andare le lacrime di commozione trattenute fino a quel momento. Compresi perfettamente il loro stato d’animo, e anche il mio. Fu in quel momento, esattamente in quel momento, che smisi di essere una ragazza e iniziai il percorso che mi avrebbe resa una donna.

Mi voltai e iniziai a camminare per le vie di Trieste. Tutto era surreale, eppure incredibilmente vero. Fui pervasa da un senso di pace quando misi per la prima volta piede sul Molo Audace. A pochi passi da Piazza Unità, mi attirò come una calamita. Bastava percorrerlo per l’intera lunghezza per ritrovarsi, di fatto, dentro al mare, anche se era settembre inoltrato. Allora non potevo ancora saperlo, ma quel posto avrebbe accompagnato ogni tappa della mia crescita, sarebbe stato una presenza costante nei cinque anni successivi, testimone silente di decisioni, storie d’amore, abbracci di gioia e silenziosi addii, esami passati e altri più difficili, amicizie, errori, successi e fallimenti, soddisfazioni, macigni e leggerezza.
Proprio lì, in fondo al molo, c’è una rosa dei venti. Trieste infatti è un po’ la città dei venti, specchio di quelle anime che non finiscono mai di cercare loro stesse, con quel soffio onnipresente che porta scompiglio tra le vie e ordine tra i pensieri. La Bora è sicuramente il più famoso vento di Trieste. Quando la conobbi per la prima volta, ero quasi spaventata: le sue folate, di notte, ricordavano la colonna sonora di quei film dell’orrore che guardavamo durante i pigiama party di Halloween ai tempi del liceo. Quando finalmente arrivava la serata tanto attesa, eccoci di fronte alla nostra prova di coraggio: guardare il film per intero, sedute sul divano incollate l’una all’altra, come per farci forza insieme, sotto alla spessa coperta di lana, tra popcorn, patatine, segreti da raccontarci e, ovviamente, nessun amico o fratello maschio ammesso.
Ci volle tempo per imparare a conoscere la Bora, ma oggi posso dire con certezza che un’altra testimone della mia evoluzione è stata proprio lei: non si può arginare una forza così dirompente, non è possibile contrastarla, camminare in direzione opposta al suo incedere. Al contrario, coprendosi per bene e muovendosi nella sua direzione, è quasi piacevole lasciarsi accompagnare da lei. Trieste mi ha insegnato anche questo: l’importanza di accogliere.
«Non è tutto bianco o nero», mi diceva sempre mia madre durante le innumerevoli discussioni in età adolescenziale. In questa città ho imparato anche che il bianco e il nero sono due facce della stessa medaglia, e che spesso coesistono in un’armonia magica. Terra di contrasti, Trieste è un ossimoro che ancora vive, dispiegando ogni giorno le sue mille sfaccettature. Sono tanti i popoli che hanno attraversato questo luogo remoto, posto ai confini dell’Italia, lasciandovi la loro eredità. Se Trieste fosse una gemma sarebbe senz’altro una pietra grezza, di quelle che cambiano colore in base a come le si osserva. Delicata come i suoi palazzi, forte come la sua zona di porto, è incastonata tra montagne e mare. Dicotomica, ma non per questo indecisa, è stata un po’ il mio specchio. Mi ha insegnato a non oppormi alle mie mille sfaccettature, neanche a quelle più grezze, accompagnando con severità e dolcezza la mia metamorfosi da bruco a farfalla. Umberto Saba la descriveva infatti come «un ragazzaccio aspro e vorace con […] mani troppo grandi per regalare un fiore». Per lui, Trieste aveva una scontrosa grazia. Mi fa un po’ pensare al tormento dell’adolescenza, quando ti senti tutto e niente; invece sei semplicemente tutto, solo che ancora non lo sai.
Cinque anni dopo, ormai donna, vedevo il mio percorso nel capoluogo giuliano giungere al termine: avevo finito l’università ed era arrivato il momento tanto temuto: quello di salutare Trieste, città che, come una madre adottiva, mi aveva presa per mano e accolta. Con amore mi aveva aiutata a crescere; con altrettanto amore mi sussurrava il suo arrivederci. Esattamente come avevano fatto i miei genitori quel giorno di settembre di cinque anni prima, Trieste mi diceva: «Va’, e segui la tua strada». Chissà se anche lei, come loro, ha pianto; io sicuramente sì, mentre la osservavo diventare sempre più piccola dietro di me. Ma sapevo che sarei tornata, e questa era la mia grande promessa.
Complimenti! Un articolo che, conoscendo l’autrice, mi fa quasi venire la pelle d’oca. Apprezzo molto la sensibilità che Martina manifesta nei riguardi della città d’adozione.
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