Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
Questo estratto da La luna e i falò (1950) di Cesare Pavese restituisce in modo esemplare il rapporto ambivalente con il proprio territorio d’origine che chi è cresciuto in un paese riesce a capire fino in fondo. Da una parte l’esigenza di scappare dagli orizzonti claustrofobici e dai pregiudizi di una piccola realtà, dall’altra il richiamo verso quei luoghi così familiari da essere parte di te, per quella materna accoglienza con cui nessun altro posto è in grado di riceverti.
Il pamphlet L’Italia profonda (GOG, 2019), scritto da Franco Arminio e Giovanni Lindo Ferretti, nasce da un incontro pubblico tenutosi lo scorso inverno a Palazzo dei Piceni a Roma. Franco Arminio, oltre ad essere uno scrittore e poeta, è noto a tutti come “paesologo”. Egli stesso definisce la paesologia a metà tra l’etnologia e la poesia: un atto d’amore nei confronti dei borghi italiani, destinati a diventare fantasmi se nessuno presterà loro attenzione (attenzione e non riflettori, precisa l’autore). Arminio, che viene dal piccolo paese di Bisaccia nell’Irpinia, lo sa bene. In un’epoca storica in cui le città sono la destinazione d’eccellenza per lavoratori e studenti, fulcro della produttività, Arminio vuole far riscoprire l’importanza dei paesi, luoghi considerati privi di possibilità, noiosi, fermi nel passato in un’epoca che ha perennemente lo sguardo rivolto verso il futuro.

Chi è cresciuto in un paese a stento trattiene le lacrime guardando il film di Giuseppe Tornatore Nuovo Cinema Paradiso (1988). Il personaggio principale è Salvatore, regista di successo a Roma, che torna nel paese natio della Sicilia, dove la sua passione per il cinema aveva avuto inizio, grazie all’incontro con Alfredo, un proiezionista del cinema del paese. Salvatore mostra quanto sia difficile non farsi prendere dalla nostalgia quando ci manca proprio ciò da cui siamo fuggiti per una vita.
Sono tanti ormai i giovani che fanno la sua stessa scelta: partire per una destinazione lontana – che è quasi sempre una metropoli – alla ricerca di lavoro, fortuna, ma soprattutto di se stessi. Eppure, tra loro c’è chi sceglie di tornare e solamente nel “ri-torno” a casa riesce davvero a trovare ciò che cerca. Come se la risposta fosse sempre stata lì, senza che se ne accorgesse.
Ritornare vuol dire fare pace con il proprio passato, attraversare a ritroso il cammino delle proprie scelte con uno spirito più consapevole, stringere in un abbraccio i propri demoni, annodare il filo che lega il presente al già trascorso.
Le nostre origini sono un elemento imprescindibile e simbolico della nostra identità, ma allo stesso tempo sono materia e sangue, radici e ossa. Provenire da un paese vuol dire avere la possibilità di riconoscersi nella natura immutata che sembra aspettare il tuo ritorno. Anguilla, il protagonista di La luna e i falò, soffrirà per sempre il fatto di non avere questo privilegio. Lui, dalle origini ignote, non saprà mai dove ritrovare quelle radici: «Non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere”».

Come ben descrive Arminio nel libro Terracarne (Mondadori, 2011), visitare un paese vuol dire intrattenere un rapporto osmotico con esso: il corpo si nutre del paesaggio e il paesaggio si fa carne. È lo stesso interscambio che si produce con il luogo che abitiamo. Per questo, se un paese muore, moriamo anche noi. «Noi siamo le abitudini dentro certi luoghi. I luoghi stanno sparendo e dunque anche noi stiamo sparendo». Condannare i paesi allo svuotamento vuol dire lasciar estinguere il patrimonio culturale e sociale che rappresentano. Un paese implica tradizioni, mestieri antichi, rituali: risorse irrecuperabili. Dunque, visitare i paesi che stanno scomparendo vuol dire assumerne su di sé la malinconia e la poesia, riconoscerli con devozione e rispetto. Arminio si definisce “voyeur della desolazione”: «Io tendo a frugare più nella desolazione che nel fervore. Il fervore oggi non saprei neppure dove trovarlo. Mi pare che anche le città siano piene di desolazione».

In fin dei conti, vivere in una città che offre servizi e opportunità non vuol dire necessariamente vivere meglio. I recenti periodi di lockdown – dovuti all’emergenza sanitaria del Covid-19 – hanno messo in evidenza i grandi limiti delle giungle urbane (poco spazio, mancanza di contatto con la natura). Lo stesso Arminio, in proposito, nota che la rigenerazione dei paesi non potrà che avere benefici sulle città, fin troppo congestionate.
Ciò non vuol dire demonizzare la città, ma credere che l’Italia possa offrire due diverse modalità di abitare senza che l’una escluda l’altra, senza che si debba per forza creare economia in un paese mercificandone lo spirito attraverso un turismo patinato (nel libro si cita il caso della Costiera Amalfitana o di Civita di Bagnoregio). Arminio – ma come vedremo anche Ferretti – si concentra soprattutto sull’Italia dell’entroterra appenninico.
Le sue riflessioni sono sia di natura poetica sia strettamente politica. L’idea principale di Arminio è che ci vogliono delle politiche specifiche per ogni luogo. Non bisogna lasciar morire a poco a poco i paesi dell’Appennino e i loro relativi servizi, ma aprirvi dei buoni ospedali, delle scuole, fare manutenzione delle strade. Il Governo dovrebbe operare un “riequilibrio territoriale”: svuotare le coste per ripopolare le montagne. D’altro canto, noi cittadini dovremmo comprare olio e vino dai contadini, non badare al prezzo ma alla qualità delle risorse. Solo in questa maniera possiamo contribuire a riportare la vita nei paesi. La modernizzazione forzata e imposta, invece, cancella le peculiarità dei luoghi, il mondo contadino e i suoi usi.
Arminio, il più ottimista tra i due autori, pensa che prima o poi vi saranno delle «azioni politiche e poetiche» in grado di rendere questi territori appetibili. Non è questione di riportare in vita il passato ma creare spazio per il nuovo. Come fare? Andandoli a visitare, senza un impegno preciso. Non guardarli attraverso l’occhio del profitto: non tutti gli spazi devono essere operosi. Non avere ansia di denunciarne i disservizi e le carenze. Vedere un paese per quello che è, nei suoi umori e nei suoi silenzi. Abitare un paese con passione e pensarlo come compiuto: «Spesso i paesi sono pensati con l’idea di vedere il guasto, la cosa mancante. Il paese come città mancata». Bisogna vivere il paese avendo attenzione per gli altri, accogliendo, costruendo, credendo fermamente che anche vivendo in una piccola realtà puoi fare una grande vita e, anzi, «se la fai nel tuo paese non stai facendo solo la tua vita, stai tenendo in vita anche gli altri, anche se non lo sanno».
Giovanni Lindo Ferretti, ex cantante e paroliere del gruppo CCCP, è un personaggio complesso da inquadrare. Da una parte è riconosciuto come uno dei padri del punk italiano, dall’altra ha suscitato clamore la sua conversione al cristianesimo a seguito della lettura dei libri di Joseph Ratzinger, che considera suo maestro. Da idolo della sinistra a dichiarato estimatore di Giorgia Meloni. Da partecipante alle affollate feste dell’Unità ad amante della solitudine.

Ferretti abita a Cerreto Alpi, nell’Appennino settentrionale, il suo luogo natio. Fa parte di coloro che sono ritornati. Ha sempre vissuto come una ferita irrisolta il suo trasferimento in città, avvenuto da bambino, tanto che è tornato in paese appena ha potuto. Riconosce che la sua generazione è stata la prima ad essersi allontanata dai pascoli e dalle montagne e ad essere testimone del passaggio da paesani a cittadini «da ora et labora a produci/consuma». Se la maggior parte delle persone l’ha vissuta come una liberazione da un destino sfortunato, non è così per Ferretti. Non è stato facile da confessare visto che «tutto sembra predisposto per il contrario essendo assodato che solo un idiota può pensare di restare dove è nato a fare ciò che è sempre stato fatto».
Ritornare nel proprio paese significa anche accettare di far parte di qualcosa che c’era prima della nostra nascita e che continuerà dopo la nostra morte. Il discorso di Ferretti ha delle profonde implicazioni sociali e religiose. Per lui, gli Appennini sono il luogo di maggior vicinanza a Dio. Gli Appennini – nella loro millenaria presenza – sono geografia e storia, mitologia e religione. Solo su queste montagne si può vivere nel presente senza esserne ostaggi, custodire i misteri della vita e della morte, vivere con lentezza. Le città, invece, non hanno aloni mistici, possono tranquillamente pensarsi senza Dio. In quest’ottica, quindi, abbandonare gli Appennini vuol dire perdere il senso del sacro, smarrire la cognizione di cosa è importante, delle cose prime e delle cose ultime.
Anche secondo Ferretti è necessario salvaguardare comportamenti e saperi dei paesi appenninici, così fuori tempo e fuori luogo. La cultura della montagna si è costruita nei vari secoli, ma si sta distruggendo a ritmi velocissimi a causa della noncuranza, del disinteresse a prendere il testimone dagli anziani. È una cultura che fa parte della cristianità d’Occidente – questo collegamento con il cristianesimo è un punto su cui Ferretti insiste molto – eppure l’abbiamo lasciata morire.
Cercare di riportare le persone in montagna viene considerato antieconomico e antisociale. Secondo l’autore, è questo il vero motivo per il quale i politici italiani cercano di scoraggiare il più possibile una rivalutazione efficace di questi territori. In fin dei conti, aiutare i piccoli paesi è uno sforzo poco remunerativo per la classe politica. Come Ferretti nota, un paese appenninico conta meno voti di un condominio di periferia di una grande città. Quindi, quelli che restano compiono un atto di arroganza nei confronti di una società che impone un modo di vivere diverso, che lascia indietro chi non vi si adegua.
L’ex leader dei CCCP denuncia gli ostacoli burocratici e la tassazione insostenibile che ha portato le vecchie botteghe degli artigiani, le trattorie e gli allevamenti a chiudere. Le attività economiche di montagna dovrebbero essere invece tutelate, considerate presidi umanistici e geologici. In più, l’abbandono della montagna e la conseguente mancanza del lavoro di arginamento dell’erosione – di cui ormai si occupano soprattutto gli abitanti rimasti – hanno provocato le varie calamità naturali avvenute in questi anni. Lo Stato pare intervenire solo per lavori sulla viabilità, per smaltire il traffico, o quando vi sono occasioni di sfruttare la montagna a fini turistici.
Nonostante tutto, l’Appennino tosco-emiliano è diventato Sito UNESCO nel 2015, riconoscimento che Ferretti, però, considera con grande diffidenza. Un apprezzamento che ha comportato convegni e qualche like sui social, ma che non ha avuto alcun risvolto tangibile nella rivalutazione della montagna se non quello di contribuire a farla divenire un grande parco, oggetto di spettacolo ma non di vita.
Opporsi al cambiamento delle cose è inutile. Il nostro modo di vivere cambia e così si modifica il nostro modo di abitare il territorio. Allo stesso tempo, però, è un dovere cercare di ripopolare i paesi sfruttando le risorse del paese stesso, senza snaturarli, provando a ricucire il tessuto sociale di piccole comunità sfilacciate. Non fare finta di niente, ma riscoprire “l’Italia profonda”, lontana dai ritmi frenetici delle coste, più introspettiva, fatta di silenzi e assenze, così importante per la nostra anima.

Le foto dei paesi, compresa l’ultima, sono state scattate ad Aliano, il paese della Lucania che Carlo Levi raccontó in Cristo si è fermato a Eboli (1945). Dal 2013 ospita il festival La luna e i calanchi, festa della paesologia, ideato da Franco Arminio.